Il presidente senza strategie, l’Obama ispirato dalla stella polare del «nessuno stivale sul terreno», manda altri 450 soldati Usa (facendo salire il numero totale a 3.550 unità) in Iraq per addestrare l’esercito nella base di Taqaddum, tra Ramadi e Fallujah.

Ma i mille pezzi in cui l’Iraq è esploso difficilmente potranno essere rimessi insieme. Alle barbarie dell’Isis (ieri sono stati ritrovati i resti di 600 soldati uccisi lo scorso anno nei pressi di Tikrit) si aggiungono le vendette delle minoranze massacrate: combattenti yazidi, secondo Amnesty International, avrebbero attaccato due villaggi sunniti, Jiri e Sibaya: 21 i civili uccisi, 40 rapiti.

«Per questo, seppur lo Stato Islamico è un progetto destinato al fallimento, lascerà dietro di sé un Medio Oriente diviso»: ne è convinto Salah al-Nasrawi, giornalista iracheno per il think tank egiziano Al Ahram. Lo abbiamo raggiunto al telefono.

Ad un anno dalla presa di Mosul la macchina da guerra islamista procede spedita. Qual è il suo potenziale di espansione?

Dal punto di vista militare, la situazione sul terreno non è cambiata: l’Isis avanza in alcune aree e in altre arretra. All’inizio del 2015 i territori occupati in Iraq andavano dal confine con l’Iran a quello siriano, ma negli ultimi mesi il califfato ha perso terreno a Diyala e Salah-a-din e nella città di Baiji. Sul lungo periodo lo Stato Islamico è destinato al fallimento. Per due ragioni, una militare e una politica. A livello militare, l’esercito iracheno si rafforzerà grazie alle milizie sciite, che reclutano ogni giorno nuovi combattenti e ricevono sempre più armi dall’Iran. In qualche mese le forze irachene saranno capaci di riprendere Anbar.

Ma decisiva sarà la sconfitta politica dell’Isis, un progetto che può sopravvivere solo unendo sotto di sé la popolazione sunnita. Ma questo non accade: sia in Siria che in Iraq, quasi l’intera popolazione sunnita è fuggita. L’Isis non gode del fondamentale sostegno della sua comunità di riferimento perchè sia in Siria che in Iraq, tradizionalmente, i sunniti sono ideologicamente panarabisti e nazionalisti.

Eppure membri del partito Baath hanno appoggiato l’Isis nei primi mesi dell’offensiva.

I baathisti hanno appoggiato l’Isis dopo l’occupazione di Mosul per mero tatticismo, ma non si sono mai ideologicamente piegati al califfo. Per vincere a livello politico l’Isis deve far abbandonare alla popolazione sunnita il suo tradizionale panarabismo e fargli abbracciare il programma islamista e religioso. Ovvero quanto fatto dai talebani in Afghanistan che hanno aperto un’organizzazione nazionale di mujaheddin ai pashtun. Questo, però, non si realizzerà né in Iraq né tantomeno in Siria: la fuga dei sunniti all’estero o nelle zone controllate da Baghdad e dal governo di Damasco è la dimostrazione che l’Isis non ha ottenuto la simpatia e il supporto della popolazione sunnita.

Se anche l’Isis scomparisse dal Medio Oriente, la divisione settaria della regione è ormai un dato di fatto. I confini sono evaporati, altri ne stanno nascendo. L’Iraq e la Siria finiranno divisi in entità diverse?

L’Isis non ha solo modificato i confini, ma ha stravolto le dinamiche geopolitiche del Medio Oriente, dalla Siria all’Iraq fino a Libano e Yemen. Le alternative del post-Isis sono due: una soluzione politica inclusiva o la trasformazione definitiva della regione. Nel primo caso, solo il consenso nazionale tra etnie e religioni potrà garantire una stabilizzazione. In tal senso sarà fondamentale il ruolo regionale e internazionale per evitare un collasso totale dei due Stati. Ma i poteri esterni non sembrano propensi a sostenere tale alternativa perché va contro gli interessi strategici di Arabia Saudita e Stati Uniti.

Il secondo scenario è temibile, ma probabile: l’Isis, seppur sconfitto, avrà comunque distrutto l’ordine mediorientale. In un’area dove sono esplosi i settarismi religiosi e etnici, sorgeranno nuovi confini che andranno a definire la separazione tra le comunità. Prendiamo l’Iraq dove è già in corso una sorta di pulizia etnica e settaria: nelle aree occupate dai kurdi a nord, molti arabi sunniti sono fuggiti e lo stesso è avvenuto nel centro del paese, nella cosiddetta cintura di Baghdad. Quando l’Isis si ritirerà, è probabile che i rifugiati sunniti non torneranno nelle regioni di appartenenza ma si trasferiranno in quelle a maggioranza sunnita, come Anbar e Salah-a-din.

Tale divisione sarà influenzata dalla nuova legittimazione di cui godrà l’Iran a seguito dell’accordo sul nucleare? Assisteremo ancora alla guerra fredda tra asse sunnita e asse sciita o le nuove fortune di Teheran cambieranno le carte in tavola?

Dopo la firma dell’accordo con il 5+1, l’Iran si troverà in una posizione molto migliore: si rafforzerà a livello economico grazie alla sospensione delle sanzioni e al conseguente rafforzamento delle esportazioni. Tutte nuove risorse che sosteranno il suo potere militare. Se a ciò si aggiunge la probabile sconfitta dell’Arabia saudita in Yemen, assisteremo ad una radicale trasformazione del paesaggio geopolitico regionale, a favore dell’asse sciita.

All’Arabia Saudita resteranno poche alternative, tutte potenzialmente fallimentari. Potrebbe scegliere di rafforzare le sue alleanze con Stati uniti e Israele, ma le relazioni con Tel Aviv sono un boomerang: una volta che saranno ufficiali, Riyadh perderà consenso visto che si spaccia per protettore dell’Islam e del mondo arabo. Oppure potrebbe tentare di espandere la propria influenza all’interno dell’asse sunnita, ma anche questa è una strategia senza garanzie: non tutti i paesi del Golfo, né l’Egitto, sono pronti a schierarsi palesemente contro l’Iran.

Pochi giorni fa il presidente Erdogan è uscito fortemente indebolito dalle elezioni. Come influirà il voto turco sulla lotta all’Isis?

In maniera decisiva: abbondano gli elementi che fanno prevedere un cambio di rotta strategico di Ankara verso la Siria. Se verrà formato un esecutivo di coalizione, molti dei partiti che ne prenderanno parte non accetteranno l’interferenza di Erdogan in Siria. Se, poi, addirittura l’Hdp kurdo entrerà nel governo, si interromperanno le relazioni militari e economiche con quei gruppi di opposizione foraggiati da Ankara.

In un simile contesto, la coalizione anti-Isis non interviene. Per debolezza o per la volontà di spezzettare il Medio Oriente?

Sebbene guardino alla crisi in Medio Oriente come ad una minaccia diretta, Usa e Ue non fanno abbastanza. Ritengo che Obama voglia solo guadagnare tempo fino alla fine del mandato, quando si difenderà accusando il predecessore Bush. Al G7 ha annunciato che proseguirà con l’addestramento dell’esercito iracheno. Una stupidaggine: l’addestramento non è una strategia, gli Usa hanno addestrato le truppe irachene per 12 anni e speso 25 milioni di dollari per ristrutturare l’esercito, lo stesso collassato a Mosul. Chi sta combattendo davvero in Iraq sono gli sciiti sostenuti dall’Iran e la Casa Bianca continua ciecamente a non voler collaborare con Teheran.

L’Europa non ha alcuna strategia indipendente. Pagherà le spese del mancato sostegno ad una soluzione politica in Medio Oriente: è sempre più ampio l’esercito di rifugiati disperati ai suoi confini.