Un massacro: oltre 150 feriti e almeno 47 morti, seppure fonti locali parlino di 70 vittime tirate fuori dalle macerie. Ieri gli ospedali di Tripoli erano al collasso dopo l’attacco, probabilmente compiuto dallo Stato Islamico, contro il centro di addestramento della polizia al-Jahfal nella città di Zliten, a 160 km a est della capitale: la bomba è esplosa mentre nel cortile del centro 400 reclute facevano esercizi fisici.

Mentre i feriti venivano portati via con auto e ambulanze, nelle corsie degli ospedali si moltiplicavano le barelle con sopra giovani poliziotti, indosso magliette della nazionale italiana e del Real Madrid. Molti dei cadaveri raccolti sono irriconoscibili, raccontano i sopravvissuti.

L’Isis ricorda alla Libia che da poco ha tentato l’accidentata e debole strada del governo di unità che una pacificazione non potrà esserci fino a quando ad operare saranno gruppi estremisti indipendenti. Secondo le autorità locali a saltare in aria è stato un camion pieno di esplosivo, con l’inviato Onu per la Libia, Martin Kobler, che parlava di attacco suicida. Il Ministero della Salute ha dichiarato lo stato di emergenza e fatto appello agli ospedali di Tripoli e Misurata perché accolgano al meglio i feriti, una vera sfida vista la mancanza di medicinali e di equipaggiamento medico in tutto il paese.

Ieri pomeriggio non era ancora giunta alcuna rivendicazione, ma il dito è puntato sullo Stato Islamico che da mesi controlla le città orientali di Sirte e Derna e ha cellule sparse lungo tutta la costa, da Tripoli a Bengasi. Una presenza che indebolisce l’accordo di dicembre tra i due governi, quello islamista di Tripoli e quello riconosciuto dalla comunità internazionale di stanza a Tobruk, firmato in Marocco ma non ancora implementato: di tempo a disposizione ce n’è poco, entro metà gennaio il governo dovrebbe divenire realtà. A resistere alla sua attuazione sono però proprio le fazioni attive sul territorio, troppe e con obiettivi diversi per cedere quanto guadagnato negli ultimi 4 anni con le armi in pugno: tribù, milizie islamiste, gruppi secessionisti, unità qaediste, milizie Tuareg e Toubou.

L’attentato giunge a poca distanza dagli attacchi dell’Isis, cominciati lunedì, contro le stazioni petrolifere di Bin Jawad, Sidra e Ras Lanuf, tra Sirte e Bengasi. Un copione simile a quello degli assalti di ottobre, contro gli stessi impianti: autobomba contro i cancelli dell’impianto e poi un fitto lancio di missili. A Bin Jawad gli islamisti sono entrati e hanno assunto il controllo dell’impianto, per perderlo quasi del tutto negli scontri che sono seguiti con le forze governative. A Sidra ieri i razzi hanno provocato un incendio (ancora non del tutto domato) che ha colpito cinque serbatoi di greggio, ognuno dei quali contiene oltre 420mila barili. Nove le guardie uccise, 40 i feriti.

Secondo quanto riportato da Ali al-Hassi, responsabile delle Petroleum Facilities Guards, a difesa dei due siti è arrivata l’aviazione del governo islamista di Tripoli, facendo fallire gli assalti islamisti. Ad approfittare della cooperazione militare è stato il presidente della Libyan National Oil Corporation, Mustafa Sanalla, che ha fatto appello ai due parlamenti perché diano vita al più presto ad un governo unico, ma soprattutto ad un unico esercito.

Seppure ad oggi l’Isis non controlli giacimenti petroliferi in Libia, se non parzialmente quello di Bin Jawad, gli attacchi contro simili target mostrano l’intenzione di appropriarsi della cosiddetta “Mezzaluna petrolifera”, quattro terminal disposti su un corridoio di territorio lungo 200 km da Sidra a Agedabia, tra Sirte e Bengasi, dove a gestire gli impianti è il governo di Tobruk. Un territorio ricchissimo: prima della guerra civile dalla Mezzaluna veniva esportata buona parte del petrolio libico, che prima del 2011 ammontava a 1,6 milioni di barili al giorno.

Ma soprattutto l’Isis punta ad indebolire ulteriormente un paese che ha nel greggio la principale entrata: dalla caduta del colonnello Gheddafi la vendita di petrolio è crollata di due terzi a causa dell’assenza di istituzioni in grado di controllare i giacimenti e garantire l’invio all’estero. Lo ha palesemente detto il leader dell’Isis in Libia, Abdul-Mughirah al Qahtani, sulla rivista del “califfato” Dabiq, come riporta nel rapporto di dicembre l’International Crisis Group: l’obiettivo non è occupare i pozzi ma danneggiare l’economia nazionale e quindi i paesi europei che acquistano le risorse energetiche libiche.