Ha colpito di sera, dopo la rottura del digiuno nel settimo giorno di Ramadan quando le famiglie escono a godersi la città: un kamikaze si è fatto esplodere mercoledì notte nel quartiere sciita di al-Shula di Baghdad, all’ingresso del parco Saqlawiyah, affollato di gente. Sono morte 15 persone, 19 i feriti, tra loro anche dei bambini oltre al capitano Falih, capo dell’intelligence irachena della zona.

Solo ieri pomeriggio è giunta la rivendicazione, attesa, dello Stato Islamico, responsabile già il 16 maggio di un altro attacco a Tarmiyah, a nord di Baghdad: in quel caso l’attentatore suicida si è fatto esplodere ad un funerale, uccidendo sette civili.

Non si placa l’ondata di attentati in Iraq dopo l’annuncio dello scorso dicembre del premier al-Abadi di sconfitta dell’Isis. Il gruppo colpisce ancora, come fa ininterrottamente dal 2014. Solo ad aprile sono stati 64 i morti in Iraq.

È in questo clima di paura e morte che il paese prova a formare un nuovo governo, dopo le elezioni parlamentari del 12 maggio scorso. Lo spettro islamista, che non si era mostrato durante le operazioni di voto, ritorna riportando sul tavolo le annose questioni che attanagliano l’Iraq: l’assenza di sicurezza, le divisioni interne, la mancata ricostruzione.

Tutte questioni a cui gli iracheni hanno risposto con un voto diverso dalle attese, come ripetono molti analisti che mettono l’accento su risultati «anti-settari». Così a Mosul e nella provincia di Niniwe, sunnite, ha prevalso la lista sciita del premier uscente, che a Baghdad – a maggioranza sciita – si è fermata al 30%.

Su queste basi il vincitore delle elezioni, il religioso sciita Moqtada al-Sadr, prova a comporre un governo di larghe intese. Ieri, lui che è noto per le posizioni anti-iraniane nonostante la medesima appartenenza confessionale, è tornato a parlare: l’esecutivo è in via di definizione, pochi ritocchi e dovrebbe essere annunciato.

Da giorni al-Sadr incontra i leader di tutte le liste rappresentante in parlamento, sciite, sunnite, arabe e curde (eccetto, e non a caso, l’ex premier al-Maliki), facendo immaginare una coalizione piuttosto ampia, tecnica, di «ricostruzione» nazionale con a capo l’attuale primo ministro.

In contemporanea ha tenuto a precisare di non aver avuto contatti segreti con l’Arabia saudita e di non aver sentito rappresentanti degli Stati uniti, rumor sollevati in questi giorni dalla stampa locale: «Non ci sono canali aperti di comunicazione con gli americani – ha detto Diaa al-Assadi, direttore dell’ufficio politico di al-Sadr, in passato a capo dell’Esercito del Mahdi, forza di resistenza armata all’invasione Usa – Ci hanno inviato dei mediatori ma rifiutiamo di discutere o cooperare con loro anche solo attraverso degli intermediari». Una risposta al Dipartimento di Stato che martedì aveva detto di vedere in al-Sadr un «partner idoneo».

Poco prima al-Assadi aveva smentito anche contatti con Riyadh, voci emerse dopo che il ministro saudita agli Affari del Golfo aveva ritwittitato un post di al-Sadr che annunciava la vittoria alle elezioni. L’Iraq non diventerà il campo di battaglia dei paesi vicini, ha specificato l’ufficio politico. Un punto forte della campagna elettorale della lista Sairun, formata da sadristi e Partito Comunista, in aperto rigetto delle interferenze straniere.

Si profila dunque un esecutivo ampio, un governo – usando le parole del religioso – «che non sia sunnita né sciita, arabo o curdo, nazionale o settario, ma un autentico governo iracheno con un’opposizione costruttiva in un pacifico processo politico». In teoria il sogno di ogni iracheno che ora dovrà dimostrare la sua concretezza: non è detto che partiti politici che vivono del loro potere accettino un esecutivo di tecnici.

Un assaggio dei problemi è emerso ieri: come riporta Agenzia Nova, la seduta parlamentare che avrebbe dovuto certificare i risultati elettorali è stata annullata per mancato raggiungimento del numero legale.