Alla fin fine, a ben guardare, forse aveva proprio ragione JPMorgan: le costituzioni nate dalla sconfitta dei fascismi non sono compatibili con le misure austeritarie promosse dall’Unione Europea, Fondo Monetario e Banca Centrale. A ribadire il concetto è stata la corte costituzionale portoghese che giovedì scorso ha reso pubblica la bocciatura di una parte non irrilevante del bilancio per il 2014, quella relativa al taglio delle pensioni di una parte degli ex-lavoratori del pubblico impiego (ora confluita dalla Caixa Geral das Aposentações alla Segurança Social).

La Corte ha sentenziato che non si può intaccare quello che è considerato a tutti gli effetti un diritto acquisito e inalienabile. La misura non è stata considerata solo ingiusta, ma anche inefficace rispetto all’obiettivo per il quale era stata adottata: garantire la sostenibilità del sistema pensionistico.

Tutti contenti? No, non bisogna esagerare, perché adesso il governo dovrà trovare 400 milioni di euro per coprire il buco. Le strade alternative rischiano di essere altrettanto dolorose di quelle già percorse. Anche se, va detto, è difficile immaginare dove si possa trovare ulteriori spazi di tagli visto che, di sentenza in sentenza, dal 2011 a oggi, i giudici di palazzo Raton hanno bloccato quasi la metà dei principali provvedimenti del governo. A livello teorico, quindi, si dovrebbe essere quasi alla fine del cosiddetto «programma di salvataggio».

Il countdown che dovrebbe portare il Portogallo ad un recupero pieno della propria sovranità, per quel che questo concetto possa valere quando si ha un rapporto debito/pil pari al 130%, è già iniziato, ma il «consolidamento» dei conti pubblici è ancora in alto mare. Solo i più ottimisti si dicono convinti che dal luglio del 2014 il paese tornerà a finanziare interamente il proprio debito sui mercati. L’uscita dell’Irlanda dalle grinfie della troika, senza la necessità di un ulteriore piano di assistenza cautelare, aveva portato un ombra di speranza al ministero delle Finanze. A congerlarle ci ha pensato Mario Draghi il quale, nel rispetto della piena autonomia decisionale di Lisbona, ha ritenuto improbabile che la stessa cosa avverrà anche per il Portogallo. Anche se le parziali bocciature del TC impensieriscono le cancellerie europee e riportano un timido sorriso sui volti di quanti sono stufi di dover morire di austerità, lo stato di salute complessivo del Portogallo peggiora di giorno in giorno. Qualche indicatore con il segno più esiste. Tra aprile e giugno il Pil è cresciuto dell’1,1% e nel trimestre successivo dello 0,2%. Dopo tre anni di contrazione anche i consumi privati registrerebbero un timido incremento dello 0,2% e stimati in crescita dal Banco de Portugal, per il 2014, di un ulteriore 0,3%.

Ben poca cosa se si tiene in considerazione ciò che emerge dalle statistiche di vari organismi internazionali. Secondo l’United Nations Development Program (Undp), il Portogallo è precipitato nelle classifiche degli indici di sviluppo umano passando dal 29º posto del 2007 al 43º nel 2013, avvicinandosi così molto pericolosamente ad un downgrade umiliante dai paesi con “indice molto elevato” a quelli con “indice elevato”. Secondo Eurostat la media dei salari misurata in potere di acquisto nel 2012 è di un 25% circa al di sotto di quella europea, scivolando da un 80% nel 2010 a un 76% (con media Ue-28 pari a 100).

L’emigrazione torna a salire a livelli simili a quelli registrati negli anni Sessanta: tra il 2011 e il 2012, più di 200 mila persone hanno cercato fortuna all’estero. Pur nella loro contraddittorietà, quello che questi dati sembrano mostrare è che non appena la macchina dell’austerità si inceppa, tra crisi di governo e sentenze del tribunale Costituzionale, l’economia torna a crescere. Resta purtroppo il fatto che qualunque cosa accadrà nel futuro prossimo o remoto, per il Fondo Monetario «ci vorranno almeno 15 anni perché il Portogallo torni ad una condizione precedente a quella in cui era prima di entrare in crisi».