L’autorappresentazione dei calabresi nella letteratura contemporanea è costituita, in molti casi, da una cosiddetta «narrazione» rurale, arcaica, preurbana e violenta di sé stessi e del proprio orizzonte culturale e territoriale. Da una parte la mitopoietica descrizione di una regione bellissima e selvaggia che è, invece, in larga parte deturpata e cementificata, e, dall’altra, la raffigurazione dei calabresi che si autoritraggono come primitivi, violenti e incapaci di affrancarsi dalla subalternità.

UN’AUTORAPPRESENTAZIONE che alimenta, a piacimento altrui, lo stereotipo negativo del calabrese rozzo e brutale nell’immaginario. Stupisce, dunque, che i calabresi si risentano quando vengono descritti prevalentemente come irredimibili ‘ndranghetisti, come è accaduto di recente dopo la messa in onda del film Duisburg su rai uno.
Con beneficio d’inventario di Tonino Perna (Castelvecchi, pp. 130, euro 17.50) è, invece, un romanzo borghese ambientato nella città di Reggio Calabria, fra la fine dei ’60 e gli inizi dei ‘70. Il romanzo è strutturato in maniera composita, nel corso del suo svolgimento cambia linguaggio e passo con un incedere fluido e godibile grazie a una scrittura intessuta, anche nei passi che raccontano i momenti più dolorosi, di una leggerezza che è quella propria dell’animo lieve dell’autore.

L’INVENTARIO del titolo che l’autore, alla George Perec, dovrebbe fare, a seguito della morte del padre titolare di una rinomata fabbrica reggina, è quello degli oggetti di una vita, di più vite, la sua e quella dei suoi famigliari. Le cose diventano così, tracce, spie indiziarie, sono frammenti che, come in una ricerca archeologica, ci permettono di ricostruire la sua storia individuale e quella collettiva, della sua famiglia, della sua città e della sua generazione. Perna si inoltra in questa attraente, ma un po’ spaventevole, terra del passato, toccando gli oggetti ancora «caldi», come scriveva Natalia Ginzburg, della sua vita e della sua famiglia facendo raccontare ai bottoni di madreperla, alle molte foto, alle lettere, ai maglioni, alle agendine, ai biglietti del cinema, al pastore del presepe «u meravigghiatu da rutta», alle penne, alle cravatte le loro storie che, per sinestesia, si rivelano essere la sua e la storia di una generazione.

Il libro contiene, fra le molte altre cose, un’inedita, ma particolarmente efficace, definizione dei moti reggini: «la prima rivolta di popolo su base identitaria del ‘900». Perna scrive che i reggini in quella circostanza furono capaci, per la prima volta, di autocoscienza e di autoliberazione; si riconobbero come concittadini che, fianco a fianco sulle barricate, si battevano contro il presunto complotto ordito da Giacomo Mancini e Riccardo Misasi, politici cosentini all’epoca potentissimi, che non volevano che Reggio Calabria diventasse il capoluogo della Regione. I fascisti e Ciccio Franco arrivarono dopo, solo più tardi egemonizzarono e incattivirono quella rivolta di popolo, di un popolo che, soprattutto, si sentiva ignorato dallo Stato.

IL ROMANZO racconta quella prima generazione di giovani sognatori che hanno visto gli stessi film, che hanno avuto gli stessi motorini e le stesse utilitarie, gli stessi jeans e le stesse scarpe scamosciate. Giovani che non sapevano nulla di paesini abbandonati arroccati su montagne inospitali e magnifiche, di riti religiosi arcaici e semipagani, di caciocavalli appesi alle travi, di miserabili rapimenti per riscatto, di mamme vestite solo di nero, di scannamenti di capre e di uomini, di banchetti ferini di pastori nei boschi, di processioni di Madonne ingioiellate che si inchinano ai capi delle ‘ndrine, di faide secolari e crudeli, di melanzane sott’olio, di bracieri attorno ai quali i vecchi raccontano dolorose storie di miseria.

MOLTI CALABRESI possono, finalmente, riconoscersi, leggendo questo libro, in quei giovani liberi, sognatori, avidi di novità e modernità che assomigliavano a tutti i ragazzi dell’Occidente che si ribellavano al potere, alle ingiustizie, alla cultura e alle tradizioni dei loro padri e nonni. Un romanzo che restituisce un’immagine più veritiera e meno deformata di quella che, ai calabresi, turba vedere riflessa nei reportage televisivi e giornalistici sulla Calabria o nei film come Duisburg.