Lo stupore è uno strumento epistemologico o quantomeno critico? Si direbbe di sì, anche se, per definizione, lo stupore toglierebbe la capacità di parlare, figuriamoci di scrivere. È seguendo la linea di questa sensazione, troppo spesso relegata nell’armamentario conoscitivo dell’infanzia, che si coglie tutta la grazia della mostra Bolle di sapone. Forme dell’utopia tra vanitas, arte e scienza (Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, fino al 9 giugno) a cura di Michele Emmer e Marco Pierini.

SE SI VENISSE trasportati in mostra direttamente davanti alla bacheca che conserva più o meno antichi kit per fare bolle di sapone verrebbe solo il desiderio di controllare se quegli oggettini così graziosi funzionano ancora, anche a costo di fare i capricci. Ma attraverso una selezione accurata che esamina la bolla di sapone nelle arti visive dalla nascita dell’iconografia nel Cinquecento fino a Man Ray o Beckmann, per passare ai progetti architettonici ispirati dalla traslucida sfera, per giungere al ruolo svolto dalle bolle negli studi settecenteschi sulla rifrazione della luce, sull’iride newtoniana (splendido il Newtonianesimo per le dame ovvero dialoghi sopra la luce e i colori di Algarotti stampato a Napoli nel 1737) e sulle più moderne teorie sull’aggregazione organica minima della materia, si esce dalla mostra con una consapevolezza tra il visivo e il visionario.
Perché in questa rassegna, più che in altre, è necessario abbandonarsi a quel grado alto di conoscenza che solo offre il piacere della vista. Una mostra che si intende fino in fondo se la si visita ricordando le pagine di Svetlana Alpers e del suo Arte del descrivere. Il percorso si apre con la fiamminga allegoria della Vanitas, della bottega di Jacob de Witt, dove un grassoccio putto fa bolle di sapone seduto su teschio e però quel teschio lascia ammutoliti per la sua inesorabile veridicità ben poco allegorica.

Si prosegue con alcune altre Vanitates tutte di ambito nordico, in cui le bolle di sapone sono un sospiro di sollievo, levandosi leggere tra velluti polverosi, fiori appassiti, teschi capitati per caso su una scrivania a ricordare che non siamo di passaggio solo nella mostra. Ma è proprio davanti a queste opere, tutte di qualità molto alta, che l’apparente innalzamento allegorico del più elementare gioco per bambini indica come «le immagini nordiche non mascherano significati, né li nascondono dietro la superficie, ma mostrano piuttosto che il significato si trova per sua natura in ciò che l’occhio è in grado di cogliere, per quanto ingannevole possa essere».

CI SI TROVA COSÌ rasserenati e catturati davanti ai due bimbi che non rimandano ad altro che giocare a fare bolle in un pezzo straordinario attribuito a Gerard Dou, oppure allo sguardo bruciante di gioia come solo un ragazzino può avere nell’emozionante ritratto di Fra’ Galgario o ancora nel famoso e struggente Chardin in cui si coniuga, in una scena che va ben oltre quelle di genere, la rappresentazione della umana fatica, dell’inconsapevolezza infantile e della ricerca di una resa il più possibile «vera» di quelle fatate iridescenti bolle.
Nell’Ottocento sono tra gli altri Pelagi, Carcano e Les bulles de savon di Manet a disegnare una perfetta cartografia dei sensi acuminati da quel gioco e ad accompagnare il visitatore verso le stupefacenti lastre fotografiche impresse dalla miscela di acqua saponata e lampi luminosi di Bradley Miller in una fulminante ricerca tra lo scientifico e l’estetico conclusasi solo nel 2006. Una mostra che conduce fino alla più recente contemporaneità per ricordare al visitatore quell’antichissima frase di Federico II per cui conviene sempre manifestare ea quae sunt sicut sunt.