L’Iraq tiene il piede in due staffe
Usa-Russia Baghdad schiacciata: le potenti milizie sciite vogliono l'intervento russo, ma il premier teme punizioni economiche da parte degli Usa. Violente proteste nel Kurdistan iracheno: Barzani traballa
Usa-Russia Baghdad schiacciata: le potenti milizie sciite vogliono l'intervento russo, ma il premier teme punizioni economiche da parte degli Usa. Violente proteste nel Kurdistan iracheno: Barzani traballa
Migliaia di manifestanti, 5 morti, 200 feriti. È il bilancio di giorni di proteste nel Kurdistan iracheno contro l’immortale presidente Massoud Barzani. Il suo mandato è scaduto il 20 agosto ma le attese elezioni non si sono mai tenute: il Ministero della Giustizia ha prolungato la sua presidenza fino al 2017. Uno schiaffo per i tanti kurdi iracheni che ne volevano la testa, ritenendolo il colpevole della crisi economica nella regione.
Gli stipendi del milione di dipendenti pubblici non vengono pagati da tre mesi, gli scioperi si moltiplicano insieme agli attacchi contro le sedi del partito di Barzani, il Kdp. E la polizia reagisce con la forza: 5 manifestanti sono stati uccisi durante scontri di piazza.
La ragione dietro la crisi va cercata, dice l’esecutivo, a Baghdad. Da mesi, approfittando dell’avanzata dell’Isis, Erbil vende il petrolio in autonomia, violando gli accordi con il governo centrale. Che reagisce rifiutandosi di versare i finanziamenti statali. Con il prezzo del greggio in calo, l’export non basta più. E a poco serve il sostegno di Europa e Usa, ora alle prese con ben altri problemi: i pruriti di Baghdad che vuole volare verso altri lidi.
Il caos regna nelle stanze dei bottoni iracheni: il partito di governo, Alleanza Nazionale, sta facendo serie pressioni sul premier al-Abadi perché chieda l’intervento aereo russo contro l’Isis. A monte sta l’interesse degli sciiti iracheni nel rafforzare l’appartenenza all’asse sciita, guidato dall’Iran e sostenuto da Mosca, che oggi gestisce la battaglia contro il califfato.
Ma le pressioni maggiori giungono dalle milizie sciite (Badr, Ahrar al-Haq, Ketaib Hezbollah) che sul terreno ottengono risultati molto più consistenti di quelli dell’esercito. Contano 100mila uomini, gestiscono ufficiosamente il Ministero della Difesa, danno ordini diretti ad almeno una delle cinque alle unità dell’esercito.
Diversa la posizione delle fazioni sunnite che vedono nell’avvicinamento alla Russia l’indebolimento della loro posizione nel futuro dell’Iraq, già seriamente compromessa dall’invasione Usa. Nel post-Saddam, la Casa Bianca ha marginalizzato la comunità sunnita, epurando istituzioni ed esercito dei fedelissimi del rais. Un errore grave che ha provocato l’innaturale crescita di al Qaeda e l’adesione di molti sunniti iracheni. Gli stessi che oggi vedono nell’Isis una nuova opportunità per uscire dall’angolo in cui il governo Maliki imposto dagli Usa li ha relegati. Non sono pochi i sunniti che hanno sostenuto l’occupazione delle proprie comunità da parte dell’Isis, né pochi gli ex membri del partito Baath che sono entrati nelle file del califfato, da usare come piede di porco per scardinare l’autoritarismo sciita.
Oggi questi settarismi passano per gli equilibri mondiali. Al-Abadi è schiacciato tra le richieste sciite di un maggior coinvolgimento russo (pressioni che giungono forti anche da Teheran, che sul campo ha generali e pasdaran a guidare le milizie sciite) e la volontà di mantenere l’alleanza con gli Stati uniti. Non per una sterile fedeltà alla Casa Bianca, ma per il timore di punizioni: Washington ha speso 20 miliardi di dollari in Iraq in 12 anni e ha il potere di aprire e chiudere i borsoni del Fondo Monetario Internazionale. Se Baghdad lasciasse i suoi cieli ai jet russi, non è improbabile una riduzione dei finanziamenti internazionali.
Di nuovo, gli Usa sono ciechi: ostinandosi a chiudere la porta alle milizie sciite (come la chiudono ad Assad in Siria e alle proposte russe di coordinamento militare) rischiano di ritrovarsi con un Medio Oriente diverso da quello desiderato.
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