Una nuova guerra con la magistratura, sul modello e con l’intensità di quelle combattute per decenni dalla destra di Berlusconi, Giorgia Meloni ha sperato e forse anche cercato di evitarla. Scontri e polemiche anche aspri erano in conto ma senza tornare alla contrapposizione frontale dei vecchi tempi. La tentazione di riprendere quello scontro durissimo e a tutto campo si è invece riaffacciata a palazzo Chigi nelle ultime 48 ore.

Fonti anonime ma circostanziate del governo, parlando della decisione del gip di Roma di non archiviare l’inchiesta a carico del sottosegretario Delmastro, escludono le dimissioni «che non sono e non saranno richieste». Nulla di men che prevedibile. Segue però un commento molto più avvelenato: «È lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee». Parole al confine con le «toghe rosse «dei bei tempi, che nessuno aveva mai usato, neppure informalmente, dalla nascita del governo in poi.

A scatenare l’irritazione della premier non è stato il caso Delmastro. La mancata archiviazione è pioggia, pur se torrenziale, sul bagnato. La scintilla è stato il caso Santanchè. Mercoledì sera, ancora prima che l’aereo di ritorno da Varsavia atterrasse nella capitale, circolavano già indiscrezioni fluviali su quanto la «fuga di notizie» sull’iscrizione della ministra del Turismo nel registro degli indagati avesse mandato fuori dai gangheri la premier. Non che l’autodifesa della ministra le sia piaciuta, anzi. Quello è stato il primo motivo di malumore e comunque proceda l’inchiesta la permanenza al governo per più di qualche mese dell’imprenditrice indagata è a dir poco pericolante. Ma alla premier non è piaciuto affatto il trabocchetto consistente nel far uscire la notizia dell’indagine in corso proprio a ridosso dell’informativa al Senato. La ministra, che si era preparata un modello di autodifesa studiato con gli avvocati e concordato a grandi linee con la stessa premier, si è trovata in una situazione radicalmente diversa. Ha cercato annaspando di improvvisare ma con esiti desolanti. Il sospetto di una magistratura in campo per colpire il governo, la conseguente ira e la decisione probabile di passare subito al contrattacco sono nate su quell’aereo.

FdI ieri ha scelto di reagire con una raffica di dichiarazioni tutte improntate alla massima fiducia nell’esito positivo per Delmastro della vicenda e alla «sorpresa» per la decisione del gip. Più che le parole conta l’inondazione di comunicati tricolori che ha sommerso in poche ore le agenzie di stampa. Il Pd è attento a incamerare il punto segnato ma senza calcare troppo i toni: anche con la richiesta di dimissioni bisogna stare attenti all’inflazione. «Crolla l’imbarazzata e imbarazzante difesa di Nordio. Ancor più grave la copertura politica della premier», afferma Provenzano. Serracchiani, responsabile Giustizia, Orlando, Verini e Lai sottolineano «il gravissimo e illecito uso delle prerogative istituzionali per colpire un avversario» ma specificano di non aver chiesto loro l’apertura del fascicolo giudiziario e si limitano a sollecitare «un chiarimento politico-istituzionale» da parte di Nordio, della premier e del sottosegretario. Un giro di parole per evitare il termine «dimissioni» che invece adoperano Ilaria Cucchi e Bonelli, che aveva presentato l’esposto contro Delmastro.

Non ci saranno dimissioni, comunque vada a finire. Meloni non ha alcuna intenzione di scaricare un suo fedelissimo. La battaglia si combatterà su un altro fronte: la stretta sulla possibilità di rendere note le iscrizioni nel registro degli indagati e gli avvisi di garanzia che sta preparando Nordio.