L’ipocrisia umanitaria del complesso militare-digitale
Panapricon virtuali Con decisioni prese a decine di migliaia di chilometri di distanza i droni colpiscono con precisione. Poco importa se a morire sono civili
Panapricon virtuali Con decisioni prese a decine di migliaia di chilometri di distanza i droni colpiscono con precisione. Poco importa se a morire sono civili
Le due pagine che aprono il volume di Grégoire Chamayou hanno un valore espositivo del tema che lo studioso francese affronta in questo Teoria del drone (DeriveApprodi). Si tratta della conversazione tra alcuni militari di stanza in Nevada sull’azione che un drone da ricognizione e di alcuni elicotteri Apache compiono a oltre undicimila chilometri di distanza. Il teatro di guerra è l’Afghanistan, i militari che parlano stanno invece in una anonima stanza piena di computer e video nella base che coordina le azioni dei droni in giro per il mondo. Sono loro che decidono se far fuoco sugli uomini e le donne che compaiono sugli schermi. Decidono cioè se una pioggia di fuoco sia la risposta giusta in una situazione che immaginano popolata da combattenti irregolari o «insorgenti». La loro decisione comporterà vittime civili, effetti collaterali di una guerra che gli Stati Uniti vogliono condurre, e conducono, senza mettere a rischio la vita dei marine del Winsconsin o del Texas.
I droni sono infatti il sistema di intelligence e di arma che hanno visto un impiego massiccio in Afghanistan o nelle regioni del Pakistan al confine del paese scelto dagli Stati Uniti come il covo del terrorismo islamico e dunque da invadere, evitando però che sugli schermi televisivi americani scorrano le immagini del ritorno dei corpi dei soldati americani avvolti in sacchi di plastica. Ma i droni costituiscono anche un insieme di paradossi etici, politici che li rendono, alla lunga controproducenti. Possono pure evitare morti statunitensi, ma consegnano la popolazione colpita da questi specie di aerei o missili telecomandati agli insorti. Micidiali in guerra, ma politicamente letali, alla lunga, per chi li usa.
Nel libro di Chamayou ci sono inoltre pagine molto interessanti sul fatto che i droni sono il simbolo di un sistema industriale- digitale che si è costituito in questi anni e che sta prendendo il posto del suo antenato, quel sistema militare-industriale che scandalizzò, negli anni Cinquanta, filosofi, pacifisti e il presidente Ike Eisenhower , che lo stigmatizzò, poco prima di morire, come il maggiore pericolo che le democrazia occidentali dovevano fronteggiare negli anni a seguire.
L’attuale cyberwarfare vede l’entrata sul campo di battaglia un nuovo protagonista. Si tratta di un sistema integrato di satelliti, reti in fibra ottica, video, algoritmi che hanno come appendice un uomo che passa ore e ore a stare davanti a uno schermo in attesa di una immagine o di una informazione che può costituire un «dato sensibile» che fa scattare il campanello d’allarme. Lo forniscono imprese lautamente finanziate dal Pentagono, ma anche insospettabili campus universitari, software house specializzate nell’elaborazione di Big Data. Il drone è, in altri termini, una delle realizzazioni della net-economy. Le sue origini stanno certo nell’impetuoso torrente di finanziamenti che il Pentagono e altre agenzie federali statunitensi hanno dagli anni Sessanta ai giorni nostri per sviluppare il settore della computer science. Non è dunque un azzardo affermare che i droni sono nati nella Silicon Valley e che l’economia del digitale ha un forte e indissolubile legale con i militari a stelle a strisce.
Nella Teoria del drone sono centrali altri temi – ne parla in questa pagina Marco Bascetta – ma il fatto che le moderne guerre vedano una presenza massiccia del digitale non è da sottovalutare. Anzi, il digitale è divenuta una risorsa strategica nel riorganizzare gli eserciti di mezzo mondo. Da una parte, le guerre segnalata sulle mappe del pianeta terra sono quasi sempre guerre asimmetriche. Da una parte eserciti ipertecnologici, dall’altra «combattenti irregolari» poveri di mezzi, ma che provano a trasformare la disparità dei sistemi d’arma e di intelligence in loro punti di forza. In primo luogo la loro capacità di avere un forte insediamento nella popolazione. Questo significa consenso e possibilità di supporto logistico che le truppe tecnologiche, considerate dai civili invasori o ostili, non potrebbero certo avere. Inoltre, l’accesso alla Rete è prerogativa anche degli «insorti». Significativo è a questo proposito quanto scrive Chamayou nel libro, quando illustra i sistemi di disturbo messi in campo per far fallire le azioni dei droni di rilevazione delle informazioni e di combattimento. Marchingegni che possono costare poche centinaia di dollari: una bazzecola rispetto alle centinaia di milioni di dollari che servono a costruire un drone. L’autore afferma che tali sistemi di disturbo sono efficaci e che hanno rappresentato un problema per l’esercito americano.
Infine, c’è l’aspetto che l’autore non affronta, ma che sta diventando centrale nello sviluppo del cyberwar fare. I rapporti sempre più stretti tra i sistemi di intelligence e militari e le imprese dei Big Data, comprese quelle rispettabilissime come Google, Microsoft, Apple, Facebook. L’affaire delle intercettazioni del National Security Agency non è solo da inquadrare nella violazione della privacy e dei rischi della democrazia – aspetti di per sé molto rilevanti – ma anche nel fatto che quelle informazioni raccolte grazie anche a queste imprese sono dati, immagini e screening del panorama sociale che sono trasformati dagli annoiati soldati di fronte al video elementi che compongono il Big Data da usare per attivare droni da combattimento. E poco importa se il missile lanciato uccida solo un bambino che sventolava uno straccio per segnalare che è solo un ragazzo che nulla a che fare con la guerra. Le sue membra disperse nel deserto afghano sono solo un «trascurabile effetto collaterale» del sistema militare-digitale.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento