Scrittore eclettico, che sa spaziare tra versi e prosa e tra realismo e fantastico con puntate nella distopia, Jason Mott è stato accolto da un plebiscito di critica e pubblico negli Stati Uniti, culminato, pochi mesi orsono, nella conquista del National Book Award.

Che razza di libro! (traduzione scintillante di Valentina Daniele, NN editore, pp. 310, € 19,00) in originale Hell of a Book, è il suo quarto romanzo, dotato di una trama estremamente lineare, fatta di due livelli narrativi, che interagiscono e progressivamente si sovrappongono: la storia di uno scrittore afroamericano, del quale ignoriamo il nome, che è in giro per gli Stati Uniti a promuovere il suo primo romanzo (il cui titolo coincide con quello del libro), e quella di un altrettanto innominato Ragazzino, ribattezzato dai compagni di scuola «Nerofumo» per il colore ebano della sua pelle, che sin dall’infanzia, incoraggiato dai genitori, insegue e coltiva il dono dell’invisibilità come unica difesa da un mondo nel quale la violenza e l’intolleranza razziale non hanno mai cessato di esistere, manifestandosi in una lunga sequela di abusi da parte della polizia e nell’accumularsi progressivo di vittime innocenti.

Del Ragazzino ci vengono raccontati gli anni dell’infanzia, ma al tempo stesso lo vediamo apparire accanto all’innominato scrittore, effettivamente invisibile a tutti tranne che a lui, nel ruolo di interlocutore, coscienza scomoda, entità fantasmatica che chiede a gran voce di essere rappresentata.

Nell’affrontare un nucleo di temi la cui attualità è così evidente da rischiare la retorica – pericolo al quale non sempre il romanzo si sottrae – Mott sceglie la strada dell’umorismo e della metanarrazione, inseguendo lo scrittore senza nome in una sequela di disavventure erotiche e editoriali spesso divertenti, accompagnate da una riflessione non banale sulla letteratura afroamericana e sulla doppia pulsione che la anima: identitaria da un lato, universalista dall’altro.

Il dilemma se raccontare le proprie radici e le difficoltà della propria integrazione o impossessarsi anche di mondi e «colori» altri è del resto al centro delle meditazioni del protagonista, il quale dichiara fin dalle prime pagine che il suo libro è «una storia d’amore», seguendo in questo i consigli che, alla vigilia della pubblicazione e del tour promozionale che seguirà, gli sono stati impartiti da Jack, media trainer ingaggiato dalla casa editrice.

Senza mezzi termini, Jack gli ha spiegato: «L’ultima cosa di cui la gente vuole sentire parlare è l’essere neri. Senza offesa, essere neri è una maledizione: e nessuno vuole sentirsi addosso una maledizione mentre legge un libro per cui ha appena speso ventiquattro dollari e novantacinque». Meglio piuttosto scrivere «dell’amore. Di amore e finali alla Disney. Non di sofferenza. Non di oppressione. Non della paura. Non delle ingiurie del passato… immaginarie o documentate. Non della delusione. Non della morte. Mai della morte. Solo dell’amore. Racconta una storia d’amore, sempre. L’amore è una forma di assoluzione… se non esplicita, implicita».

Mentre sul tour del libro aleggiano costantemente il fantasma di un bambino ucciso da un poliziotto senza una vera ragione e la rabbia della popolazione nera (il protagonista incontra una manifestazione di Black Lives Matter proprio mentre sta per entrare in una libreria di San Francisco per una presentazione), la parola «paura», innominabile e impraticabile agli occhi del media trainer, prende progressivamente piede: ne è impregnato il passato del Ragazzino ma anche quello dello scrittore, che soffre di una «malattia» – quella di vedere cose e persone inesistenti per chiunque – dalla quale traggono origine le sue storie.

La partita che Che razza di libro! decide di giocare – e che nel complesso, a parte qualche passaggio troppo «facile» e dichiarativo, vince, è allora quella di introiettare la paura; e di diventare, attraverso la paura stessa e la sua accettazione, anche un romanzo d’amore.