Arrivo da Luisa Brancaccio alle 17 di un sabato pomeriggio di gennaio. Fuori un vento caldo, anomalo, mi ha fatto strada fino a questa casa al primo piano affacciata su un giardino interno, nascosto tra i palazzi, che d’estate deve fornire una vista rigenerante. È la prima volta che mi trovo qui. Luisa mi sente tossire e mi offre una tisana per le vie respiratorie. Mi dice: «Odio le tisane e i thè, bevo solo caffè». «Ma allora perché ce le hai?». «Per chi viene a trovarmi». Questa cosa mi piace molto. Per un’ora parliamo di tutto: di amori, di isole dove un tedesco che si chiama Ano fa un miele che viene chiamato miele d’Ano, di malanni, di rimedi naturali, di libri. Sul tavolino davanti al divano dove sono seduta c’è una copia di Stanno tutti bene tranne me, il suo romanzo uscito un paio di anni fa per Einaudi, che ho amato molto. Alle sei accendo il registratore e apro l’iPad: cominciamo.

 

 

Sei mai stata invidiosa?
Sì, l’invidia è un sentimento che conosco perfettamente. L’invidia è un tabù, viene molto demonizzata. Non so perché, io non l’ho mai sentita come un sentimento distruttivo. Per me ha più a che fare con l’empatia, con l’immedesimazione. Per esempio invidio quelli che hanno animali domestici, cani o gatti, ma non desidero nulla di male per l’uomo né per l’animale. È vero che dalI’invidia di Lucifero nasce il male. Però per me ha più a che fare con l’immedesimazione e l’empatizzare che con la voglia di distruggere.

 

 

Cosa ti provoca? Che effetto produce sul tuo corpo? Sulla tua mente? Sul tuo cuore?
La gelosia mi turba, l’invidia no, è un sentimento blando, non la somatizzo.

 

 

Hai mai sentito l’invidia pesare su di te? È una sensazione piacevole o spiacevole? Produce un senso di riscatto dall’averla provata a propria volta?
Mi sono sentita poco invidiata nella vita, spesso. Quando è capitato non l’ho sentita distruttiva ma come conferma di una mia qualità. La leggo come la sorella intestina dell’ammirazione, la sua parte più oscura. In amore… Ho visto che in amore se lui è innamorato e io no mi sento invidiosa, come invidia sociale di Marx, tu ricevi qualcosa di buono e io no. Si, ho invidiato l’amore dell’altro.

 

 

A quel punto hai lasciato il non amato?
Ho prodotto ostilità. Fabiana, io ho sempre lasciato, prima o poi.

 

 

(Le guardo le gambe fasciate nei leggins e penso: «com’è magra». Noto che non ha freddo con quel piccolo pezzo di caviglia nudo tra stoffa e stivaletto. Che non è truccata. Che è bellissima. Ricontrollo il registratore. Altra domanda. Intanto lei fuma una sigaretta vicino alla finestra).

 

 

Ti cito Gore Vidal: «Ogni volta che un amico ha successo una piccola parte di me muore». Che ne pensi?
Invidia per altri scrittori non ce l’ho ma è perché sono estremamente critica, intendo scrittori vicini, la mia invidia per gli scrittori della mia generazione è addolcita dalla mia arroganza, non ho mai desiderato di aver scritto quella cosa lì, scritta da qualcun altro. Riguardo al successo o al consenso non l’ho desiderato mai.
Mi fai pensare che sto rileggendo L’informazione di Martin Amis. Due amici e uno dei due ha successo. Quando ero giovane e leggevo Giordano Bruno mi chiedevo sempre com’era vivere una intera vita senza avere consenso, essere sempre un dissenziente. Sono distaccata dalla necessità di ricevere consenso. Quando ho pubblicato il libro (2013) sono rimasta sorpresa dalle cose positive che sono arrivate perché non me le aspettavo. Non sono una professionista. Scrivere e pubblicare è un caso, non proprio un lavoro. Non sono ambiziosa.

 

 

Nel 1996 con la pubblicazione del volume «Gioventù cannibale» eri accostata a colui che ha incarnato, negli anni successivi fino ad oggi, l’esatto opposto di quello che hai appena detto tu: Niccolò Ammaniti. (Il racconto «Sonatine», presente nella raccolta, fu scritto a quattro mani e porta la firma Ammaniti-Brancaccio).
Niccolò aveva una fortissima ambizione e io mi sono ritirata. Quella era un’onda e io l’ho rifiutata, ho pensato «questa roba è una trappola» e ho aspettato tanti anni. Ho deciso di non fare carriera.

 

 

Secondo te, l’invidia muove il mondo?
Non muove il mondo, le teorie sociali che hanno a che fare con la lotta per la sopravvivenza, che fanno capo al darwinismo sociale, che hanno nutrito il nazismo sono tutte cazzate, per me. La natura come modello di comportamento per l’uomo è osservata sempre da maschi in cui il modello di guerriero viene esaltato al contrario del modello femminile, materno che salva, nutre e si prende cura. Proteggere il più debole è il 50% del comportamento umano. Penso a Kropotkin, scrittore anarchico russo del novecento. Quello che muove il mondo non è la competizione. D’altronde sono antispecista, la filosofia che crede nel diritto alla vita anche per i più deboli.

 

 

L’invidia può essere positiva?
Può essere un esercizio di empatia e, nel modello sociale che tende alla giustizia sociale, può avere aspetti positivi, è il nome che possiamo dare all’ingiustizia sociale.

 

 

Concludo la registrazione e mi fumo una sigaretta con la mia gentile ospite. Continuiamo rilassate il nostro dialogo come sulle curve di un otto volante, perdendoci e ritrovandoci. Un sms da casa mi riporta all’ordine, il mio tempo (di libera uscita) è scaduto. Vado via col mio bottino di capperi arcudari e Bolus Eucalypti compositum, polvere omeopatica per sciacqui per la gola, pensieri stimolanti e mentre scendo le scale penso a Luisa che non deve cucinare in fretta la cena per nessuno stasera, che può leggere tutta la notte il romanzo di Amis senza disturbare con la luce accesa, che può vedere mille puntate di una serie tv o imbambolarsi davanti alla sua finestra con vista e guardare le stelle accanto al gattino a grandezza naturale di ceramica bianco e nero. È chiaro, lo ammetto: sono invidiosa di lei, della sua carriera, del suo vivere da sola, del suo avere un fidanzato più giovane, del suo svegliarsi quando vuole la mattina o il pomeriggio addirittura. Esco da quella casa e mi sento vent’anni di più di quelli che ho. Forse torno indietro e le chiedo ospitalità per un po’. Lo so, non si può, ma come se l’avessi fatto.