«Mio padre era adolescente quando sua madre è morta. Lo stesso è capitato a me. Quel giorno io e lui ci siamo ritrovati nel senso di perdita. Sono grata al cinema perché ha accolto la mia inquietudine e mi ha permesso di darle una forma». Con queste parole, la regista Catarina Vasconcelos, classe 1986, ha presentato alla Berlinale – che si è appena conclusa – il suo lungometraggio di esordio A metamorfose dos pássaros (La metamorfosi degli uccelli), selezionato per la neonata sezione competitiva Encounters. Si tratta di una poesia d’amore di profonda eleganza visiva in cui il film di famiglia si intreccia a una meditazione onirica sul lutto e sul vuoto. Vasconcelos risponde alle nostre domande con la passione di chi ha lavorato a quest’opera prima per ben sei anni.

Dal tuo film traspare un’idea di memoria che non esclude l’invenzione, perché?
Fare un film di famiglia significa da una parte lottare per sottrarre i ricordi all’oblio, dall’altra accettare che tutte le famiglie conservano dei segreti. Volevo raccontare la storia di mia nonna Triz, che non ho mai conosciuto e di cui mio padre e i miei zii parlavano poco, quindi mi è toccato immaginare quello che non mi era dato sapere. La sua era un’assenza/presenza che mi intrigava, non capivo se i silenzi fossero una reazione al dolore di una perdita improvvisa o il riflesso del fatto che i figli sentivano Triz ancora molto presente. Il film è iniziato come un documentario e poi è diventato un ibrido, un’indagine sulla mia famiglia in cui l’invenzione colma i vuoti della parola. Mentre preparavo la sceneggiatura la notte sognavo e queste immagini sono entrate a far parte del film ma è stato necessario un lavoro di indagine e scrittura molto intenso.

L’architettura visiva dell’opera è complessa ma compatta come un puzzle, come l’hai elaborata?
Il film è un collage di immagini, musica, letteratura diviso in due parti. La prima si concentra su mia nonna ed è girata in 16 millimetri per una ragione forse naif: lei è morta nel 1984 e non ha mai conosciuto il digitale. Poi la pellicola è materiale e io volevo darle corpo. Inoltre, mi piace la sacralità del tempo che si respira sul set quando si filma in pellicola. Può sembrare strano ma ho preferito non usare filmini di famiglia perché altrimenti non avrei potuto creare io le mie immagini. Quando Triz muore inizia la seconda parte, in digitale, ed è come se ci fosse una piccola perdita a livello visivo.

A un certo punto, cammini nel paesaggio con una bandiera che reca il volto di Triz, è un’immagine che mi fa pensare alle prime performance di Marina Abramovic, è un riferimento che ti corrisponde?
Io ho una relazione molto forte con i miei morti, sono parte di me. Quando vai a una manifestazione, le persone sventolano bandiere per lottare, difendere una causa. I miei morti, le nostre memorie, sono la mia lotta, la mia causa. Quando perdi qualcuno ti chiedi dove sia finito e l’idea che possa essere disperso nella natura ti dà sollievo e quindi volevo che il viso di Triz si fondesse nella natura, vibrasse al vento, prendesse vita. Marina Abramovic, il suo lavoro con Ulay, è sicuramente un’ispirazione. Ma anche Jean Cocteau, Maya Deren, il cinema di Agnès Varda e di Manoel de Oliveira, per esempio mi commuove la bellezza di La valle del peccato. Mi sono ispirata anche alle nature morte di Josefa de Óbidos, pittrice del XVII secolo.

L’idea che la madre morta si trasformi in albero e i figli in passeri ti viene dalla mitologia classica?
Ho letto molti miti classici e nordici per preparare il film, soprattutto quelli relativi alla trasformazione degli umani in uccelli, ma erano spesso tragici, punitivi, mentre io volevo che la metamorfosi fosse un’idea positiva. Dato che i miei nonni erano molto cattolici ho anche letto alcune cose sui santi, soprattutto santa Lucia che se fossi cattolica sarebbe la mia patrona perché protegge la visione.

Il film è piaciuto alla tua famiglia?
I miei famigliari sono stati molto coinvolti nella lavorazione. Inizialmente c’era diffidenza ma poi rimettere in scena il passato con alcuni miei cugini nel ruolo degli zii e un’altra in quello di Triz ha rafforzato molto i nostri legami e la fiducia nel mio lavoro al punto che verso la fine mi chiedevano come va il «nostro» film? Quando gliel’ho mostrato mi hanno detto: «Le cose non sono andate proprio come racconti tu ma forse hai ragione, forse hai colto qualcosa che ci era sfuggito». È stato il complimento più bello.