«Goffredo Fofi mi dedicò un articolo su Ombre rosse intitolato Il delfino, nel quale lui m’immaginava sostenuto da una corte di persone che si premurava attorno a me», ha ricordato Bernardo Bertolucci nel corso dell’appassionante convegno alla Casa del Cinema incentrato su Barriere di carta, il libro curato dal compianto Gianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa, dedicato al duello a distanza fra Cinema e film e Ombre, due riviste chiave per lo sviluppo del dibattito critico in Italia negli anni Sessanta. «Mi vedeva circondato da Attilio, Pierpaolo, Moravia, tutti ad aiutarmi e ovviamente non era così», ha continuato Bertolucci il ricordo del suo ritratto vergato da Fofi.
«Anche anni dopo, quando con qualche sms si premura di farmi sapere cosa pensa di qualche mio film che gli è piaciuto un pochino di più, la sua ammirazione nei miei confronti è sempre molto… pallida». Presentato da Piero Spila e introdotto da Bruno Torri che ha delineato il contesto politico, culturale, filosofico, artistico e cinematografico nel quale le due riviste hanno operato, il convegno è stato l’occasione per rivisitare una stagione feconda e problematica. Alfredo Rossi ha ricordato l’amico Gianni Volpi mentre Jacopo Chessa si è inoltrato nella metodologia che ha guidato i curatori del volume nella scelta dei saggi. «Un lavoro immane», ha spiegato, «operato con grandi colpi di forbice. Inevitabili d’altronde. A nostra disposizione avevamo solo 150 pagine per Cinema e film e altrettante per Ombre rosse».
Assente, perché impegnato altrove, Goffredo Fofi, animatore principe di Ombre rosse. Il dibattito ha subito preso quota grazie agli interventi dei protagonisti di allora, tra i quali proprio Bertolucci, fervido sostenitore di Cinema e film (bellissima e inimitabile la lettera bertolucciana ricordata da Spila), e Marco Bellocchio, schierato invece dalla parte di Ombre rosse. Maurizio Ponzi, Adriano Aprà, e Franco Ferrini completavano, con Piero Spila, il cast dei redattori di Cinema e film. Più che una rimpatriata nostalgica, il convegno è stato l’occasione per rivedere le posizioni di allora alla luce della situazione politica e culturale attuale, assolutamente inimmaginabile dal cono di luce degli anni Sessanta.
Cinema e film, cinefila e sintonizzata su quanto si muoveva in quegli anni, da Lacan alla linguistica, Ombre rosse più politicizzata e schierata. «Di quello che credevamo allora non è rimasto nulla», ha dichiarato con grande franchezza senza celarsi dietro inutili sentimentalismi Marco Bellocchio. «La mia adesione a Ombre rosse – ha spiegato – era dovuta a una condivisione di priorità politiche, di lotta di classe, che allora rispetto al cinema mi sembrava più importante».
Ed è proprio sull’amore per il cinema, che Maurizio Ponzi chiede ragione a Bellocchio riportando un’affermazione dell’epoca secondo la quale a lui «del cinema non importava niente». «Mi sembrava che ci fossero cose più urgenti», spiega Bellocchio. «Ovvio che il cinema mi piacesse, ma mi sembrava una specie di mancanza di pudore dichiararlo come se fosse un merito». «Cinema e film è nata dall’insoddisfazione di un ampio gruppo di collaboratori nei confronti di una rivista che si chiamava e si chiama Filmcritica», ha ricordato Adriano Aprà. «Cinema e film, per semplificare, stava per teoria e pratica». Inevitabile evocare la storica conflittualità transalpina fra i Cahiers e Positif, con Jean Gili attento uditore in sala. «Cinema e film, rispetto a Ombre e rosse, era la rivista di quanti si preparavano a fare i loro film», ha ricordato Maurizio Ponzi. «Com’era già successo per i Cahiers gialli, si faceva già cinema praticando la critica». Punto cruciale, questo, ricordato anche da Aprà nel suo intervento. Franco Ferrini, sceneggiatore per Michele Massimo Tarantini, Alberto Lattuada, l’amico Ponzi, Carlo Verdone, Dario Argento, Sergio Leone e Sergio Corbucci, ha chiamato in causa Enzo Ungari, pensatore di cinema, e una sua recensione di Senza un attimo di tregua di John Boorman non apparsa su Cinema e film, quale esempio dello scarto visionario in dote a quanti scrivevano sulle pagine della rivista.
«Molto però di quanto scritto, soprattutto le cose mie», ha continuato Ferrini, «non esce dal contesto degli anni Sessanta. Ci sono saggi, però, come quelli di Adriano Aprà, che invece sono validi ancora oggi». Chessa, dal canto suo, per sottolineare la virulenza politica di Ombre rosse, ha riportato a una citazione di Volpi a proposito di Persona di Ingmar Bergman secondo la quale era ovvio che il regista si fosse ridotto ormai al ruolo di giullare della borghesia europea. «All’epoca era fondamentale sapere qual era il cinema da difendere e, soprattutto, da odiare», ha spiegato Chessa a proposito di Ombre rosse. «La nostra politica» ha replicato Spila, «era di non scrivere del cinema che non ci piaceva. Erano queste le nostre stroncature».