Il libro di Manfredi Alberti – La “scoperta” dei disoccupati. Alle origini dell’indagine statistica sulla disoccupazione nell’Italia liberale (1893-1915), Firenze University Press, euro 13,90 – è un felice esempio della ripresa in corso degli studi di storia sociale, del lavoro e del welfare in Italia. Il volume sistematizza, infatti, le acquisizioni sul tema specifico indicato nel titolo e soprattutto apre a nuove conoscenze con l’analisi approfondita di ricche fonti di prima mano. Rappresenta anche un contributo alla «preistoria» dell’Istituto centrale di statistica, una di quelle istituzioni che appartengono al complesso di tentativi di modernizzazione non esclusivamente autoritaria e corporativa descritti da Silvio Lanaro nell’ormai classico e ancora discusso Nazione e Lavoro.
Un capitolo introduttivo di grande interesse richiama gli approcci storiografici cui Alberti fa riferimento. Lo fa con originalità e con grande coraggio, cogliendo con acume un ambito di «storia sociale dei mondi del lavoro» nelle ricerche maturate fra gli anni Sessanta e Settanta che si possono riassumere nel magistero di Stefano Merli autore di Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. E riassume, al di là delle intense discussioni, ad esempio con Giuliano Procacci, i caratteri non ideologici ma materiali con cui quella «scuola» individua nel rapporto di produzione immediato e nel suo disciplinamento le condizioni per la nascita della classe operaia in Italia. Il lavoro tiene anche conto delle ricerche più recenti e innovative – come quelle, in corso, di Michele Nani – sul ruolo delle migrazioni nella formazione del proletariato agricolo.

L’abbandono delle campagne

Gli anni della svolta del secolo in cui si consolidano le organizzazioni sindacali e dunque una relativa stabilizzazione dei rapporti di lavoro vedono emergere gradualmente la figura del lavoratore qualificato, sostenuta dal mestiere. La grande «scoperta» di quegli anni – cito qui il nome del «notabile democratico» Max Lazard – è quella di dissociare finalmente la disoccupazione come fenomeno di massa dalle «colpe» e responsabilità individuali e dalla formazione per collegarla a fenomeni macroeconomici, soprattutto all’innovazione tecnologica e organizzativa.
Alberti ricostruisce i rapporti fra queste «scoperte» divulgate da associazioni internazionali – di cui l’Italia ha ospitato il primo convegno nel 1906 – e le specificità economiche e sociali del nostro paese. Osserva il nesso problematico fra i fenomeni migratori, la disoccupazione e l’abbandono delle campagne durante la lunga depressione, a partire dalle pionieristiche indagini di Leone Carpi sui flussi migratori che avevano preso in esame il problema della carenza di lavoro: un nesso che però l’indagine statistica ebbe sempre molte difficoltà a rilevare. Arnaldo Agnelli, libero docente di economia politica all’Università di Pavia e interlocutore dell’Associazione internazionale per la lotta contro la disoccupazione, in una ricerca pubblicata nel 1909 fa esplicitamente riferimento al modello neoclassico di mercato del lavoro, che alimentava speranze che stavano per essere progressivamente superate proprio nella discussione europea. Decisamente più problematica e incerta è la questione del rapporto fra emigrazione e mercato del lavoro interno.
Sulla scorta delle tesi sostenute dalle ricerche di Edward P. Thompson, Alberti individua, anche in Italia, nello sviluppo dei diversi istituti del movimento operaio «sia le premesse materiali per l’avvio di un rilevamento statistico della disoccupazione sia le precondizioni di ordine “politico”: il bisogno di una piena cognizione del fenomeno e la necessità di disporre di cifre attendibili sulla reale entità della disoccupazione, esigenze avvertite in primo luogo dagli stessi lavoratori organizzati, in funzione della lotta di classe e della battaglia per ottenere migliori condizioni di lavoro». Un nesso che si coniuga con il prevalere del mestiere, della categoria, del sindacato territoriale riscontrabile in tutta Europa.
Dopo l’esordio del convegno dell’Umanitaria – in piena età giolittiana – nel periodo della guerra di Libia e della fase d’arresto dell’espansione economica di quegli anni, «il problema della disoccupazione operaia e contadina – scrive l’autore – si impose all’attenzione del movimento dei lavoratori con forza crescente. Nell’ottobre del 1912 si svolse a Bologna un congresso nazionale contro la disoccupazione, indetto dalla Cgdl di comune accordo con la Federterra». Conviene qui ricordare che proprio l’importanza dei braccianti nella composizione della classe operaia italiana rendeva il movimento sindacale particolarmente sensibile ai problemi della precarietà strutturale e quindi del collocamento.
In importanti paragrafi del capitolo 3 si analizzano gli aspetti istituzionali e giuridici del mercato del lavoro nell’Italia liberale, condizione indispensabile – e storica – dell’emersione sistematica della figura del disoccupato, tracciando il modestissimo bilancio della normativa giuridica sui licenziamenti.
La terza parte, molto ricca, ricostruisce la nascita progressiva di organismi statuali specificamente preposti allo studio e alla rappresentanza istituzionale del lavoro, in un confronto costante con le esperienze degli altri paesi occidentali, favorita anche dalla partecipazione italiana a organismi internazionali. Un processo che porterà alla nascita, in Italia come in molti altri paesi europei, di un vero e proprio Ministero del Lavoro, nella complessa fase di compromesso seguita immediatamente alla prima guerra mondiale. Il personale politico e tecnico e le competenze di quel ministero si formano attraverso una lunga gestazione all’interno dell’Ufficio del lavoro, sorto nel 1902 come agenzia del Ministero di Agricoltura, industria e commercio. Negli stessi paragrafi si ricostruisce anche il fondamentale ruolo svolto in questo contesto dalla Società Umanitaria e dal «Bollettino» dell’Ufficio del Lavoro governativo (Bul), che esce regolarmente a partire dal 1904, una fonte primaria finora non interamente utilizzata dagli storici.

La storia di una condizione

Il lettore – continuamente sollecitato da impressionanti analogie col presente – segue in questa bella ricerca le peculiarità della via italiana all’«invenzione» del disoccupato che segue strade analoghe in tutta Europa. «Invenzione» nel doppio senso di individuazione di un soggetto e di creazione delle condizioni in cui dare delle risposte ai problemi posti da esso.
Il disoccupato emerge lentamente dalla condizione normalmente precaria del lavoratore povero caratteristica della rivoluzione industriale fino agli anni Settanta del XIX secolo, di mano in mano che questa precarietà arretra prima per via contrattuale, poi – soprattutto – con la generalizzazione del contratto nazionale nel primo dopoguerra e infine con leggi che tendono a normare sia i licenziamenti individuali sia quelli collettivi. Ricerche come questa hanno dunque anche il merito di segnalare la storicità di condizioni che la discussione attuale schiaccia negli ultimi vent’anni fra «fordismo» e «postfordismo».