«L’alfabeto di bambola ha undici lettere: A b c d i l m n o p u»: Camilla Grudova ne è praticamente certa. E un alfabeto le è bastato per comporre un universo, più che parallelo, divergente. L’autrice canadese, alla sua prima raccolta di racconti (Alfabeto di bambola, Il Saggiatore, euro 19, traduzione di Andrea Morstabilini), non ricorre all’immaginario fantastico come farebbe la distopia, per aiutarci a comprendere meglio la realtà così come crediamo di conoscerla. Ne inventa un’altra, tanto più vera quanto più inverificabile.

IN QUESTA REALTÀ, le donne hanno molte mammelle e partoriscono gemelli dalla testa, hanno pance che sembrano uova bollite e unghie «scure e dure come artigli», s’innamorano di uomini dalle gambe lunghe che sognano di vivere dentro a scatole di biscotti, di ragazzi piccoli e quasi albini che collezionano scimmie di mare sul bordo di un camino. E potrebbe accadere che una moglie assai ordinata scopra come ci si scuce di dosso un vecchio sé, e lo deponga nella spazzatura; o che un marito dal nome comune metta a bollire un certificato di matrimonio nella teiera dopo aver portato a casa il cadavere di una donna troppo bassa avvolto in un cappotto. Ma nessuno ci terrà al riparo dagli effetti collaterali della funzione riproduttiva.
Tra queste pagine ogni parto assomiglia a un aborto, ogni gravidanza a un atto di cannibalismo – «qualcosa mi uscì da dentro, un grumo rosa. Era piatto all’estremità, come un tubero con le punte tagliate. Non aveva bocca, occhi o mani, ma era vivo: si affannava nell’acqua» si legge in Rinoceronti; «io stessa mi sentivo una casa di bambole, con una piccola persona dentro di me, e immaginavo di inghiottire piccole sedie e padelle perché fosse più comoda» ne La regina dei topi.

OGNI RACCONTO è un pianeta a sé, ma sono tutti immersi nello stesso plasma, un aggregato di materia viva che risponde a leggi di una biologia precisa, fatta di «cosine non più grandi di una mano» o «a forma di orecchio», agglomerati di carne dalle consistenze cerose «simili a moccolo di candela o alla buccia di un piccolo formaggio»; corpuscoli sopraggiunti all’improvviso, da conservare dentro scatole di latta in attesa che arrivino, da qualche parte e prima o poi, altri pezzi da assemblare. Non si tratta «solo» di manipolare la realtà, nel cosmo di Grudova le stesse fantasie vanno incontro a mutazioni. Persino le sirene non sono quelle di cui si sa – divise in due, pesci sotto e donne sopra – ma sono mescolate insieme «come il tè con il latte». E si potrebbe credere di essere precipitati in un sottosopra della coscienza, dove niente è come sembra e tutto sta a significare qualcos’altro, o di trovarsi tra le teche illuminate di un museo vittoriano tutto volto a mettere in mostra le difformità dei corpi, se non fosse che ogni alfabeto di bambola rivela una sua propria geografia.
Nelle storie di Grudova c’è sempre un emporio di cose vecchie o già usate, un alimentari abbandonato, un «negozietto» di crinoline, maschere e costumi assediati dalle tarme che vende oggetti unici e interessanti cianfrusaglie – «guanti blu marino, confezioni di polvere da sciogliere in acqua per preparare dolci drink colorati», «barattolini di sale e barrette dolci di colore rosa».

UNA LETTERA dopo l’altra l’autrice ci fa strada tra gli anfratti di un regno socchiuso, un labirinto di interni in cui si procede strisciando come dentro a un sogno pericoloso, dove tutti sanno come stanno le cose tranne noi, che siamo appena arrivati. Qui, le nuove camere sono vecchie cucine e i frigoriferi svolgono la funzione di guardaroba; i bar vendono carne bollita con «toast allo sciroppo dorato», e c’è sempre una botola che porta al piano di sotto.
Al confine tra weird e surreale, grottesco e folclorico, i racconti di Grudova starebbero bene accanto all’antologia Le visionarie, curata da Ann e Jeff VanderMeer, così come alle atmosfere barocche di Giambattista Basile. E forse prima ancora che dalla fantascienza è proprio dal baule delle fiabe di magia che attinge la sua voce; una voce incarnata e materica, che sa parlare alla nostra parte bambina – quella non ancora anestetizzata, impressionabile, rimasta invischiata in una lingua sommersa, fatta di interiora e tegumenti prima che di pacchetti di dati.

CI SAREBBE DA CHIEDERSI come funziona il tempo nelle fantasie, se questa voce risponde così bene a quello che, ormai più di un secolo fa, Frank Baum definiva «il momento per nuovi racconti meravigliosi», riferendosi a una consolidata tradizione di geni, nani e fate che avevano la funzione di spaventare i più piccoli soprattutto per dispensare una morale.
In tredici racconti senza tempo, Grudova mette insieme un inventario di meravigliose assurdità, e lo fa con la minuzia di una sarta, con tutta la coerenza che prima che alla testa ogni mestiere richiede alle dita. Tanto che, sembra dirci, la scrittura è una macchina da cucire, un marchingegno in grado di suturare l’esistenza. Non si tratta solo di un’immagine ricorrente – nelle sue storie ce n’è sempre una, ogni volta diversa – ma dell’intelligenza che sottende e che muove le cose. Come accade nel racconto La macchina di Agata, dove due ragazzine diventano adulte intorno a una macchina da cucire che è anche lanterna magica, capace di proiettare sulle pareti di una soffitta creature interiori bidimensionali e sconcertanti. È il modo in cui, seppur per coordinate diametralmente opposte, ci appare Alice nell’ultimo romanzo dell’americano Shane Jones (Vincent e Alice e Alice, Pidgin, euro 15), che si è fatto conoscere in Italia per la stravaganza dei suoi precedenti Io sono febbraio, Daniel contro l’uragano, e Mangiacristalli, e adesso porta al collasso il principio di realtà firmando la storia più verosimile della sua vita. Quella di Vincent, un impiegato di mezza età il cui unico obiettivo è raggiungere i requisiti per il pieno pensionamento, alle prese con i postumi del divorzio dalla moglie trasferitasi a Chicago per un’occasione di carriera.
«Ora sono sola e vivo nella realtà» ci dice Alice a pagina uno il 1 giugno del 2037 «sembra che non si possa dire lo stesso di molte persone, oggigiorno, ma loro sono produttive e felici. Sapresti dire di più sulla forza lavoro moderna di quanto ne sarei capace io, è questo che volevi sentirti dire?».

IL RESTO DELLA STORIA si svolge nel 2017, seguendo un andamento lineare e privo di svolte come il viaggio in ascensore che porta il protagonista al ventesimo piano del grattacielo in cui lavora da anni, fin nell’ufficio di tale Dorian Blood, leader a capo di un nuovo programma per migliorare il rendimento del personale – «Pattuglia per la Ripetizione Quotidiana. PRQ, in breve è come lo chiamiamo ora» – di base una parodia della terapia cognitivo-comportamentale, o forse solo l’ennesimo esercizio di realtà aumentata, in ogni caso e senza dubbio un prodotto del capitalismo.
Da qui, tutto inizia a funzionare «come un enorme scherzo televisivo»: Vincent viene inserito nel «programma», la sua vita e «il portale» iniziano a confondersi, e Alice assume le sembianze di un ricordo e il corpo di un’idea. Sembra un film del nostro passato prossimo, un mash-up tra The Truman show (1998) e Her (2013), invece è un «office novel» senza Tyler Durden, che riunisce i presupposti del romantic drama alla critica sociale. Per il resto, tutto procede come lo sappiamo, i colleghi bevono lunghi caffè facendo gossip sui compleanni, gli ascensori continuano a scendere e salire, e la cittadina di A-ville, provincia americana dal nome più anonimo che raro, è animata da incendi e rivolte di cui si apprende attraverso la televisione. Più il mondo di Jones assomiglia a quello che conosciamo, più i suoi contorni spariscono, relegando la vicenda del protagonista a uno scenario dallo sfondo bianco.

VINCENT SI MUOVE in questo paesaggio assottigliato e immateriale come tra i ritagli di un pop up, in un andirivieni tra casa e ufficio, tra una divagazione e l’altra, tra un’Alice e un’altra. Così, più che un personaggio, Alice diventa un concetto, la soglia che separa derealizzazione e allucinazione. Una creatura simulata più che speculativa, sicuramente disincarnata e perpetuabile, costretta a un eterno ripetersi e per questo meno che reale – «so che lei non è la vera Alice, ma sento proprio come se lo fosse, e vorrei soltanto parlarne un altro po’. Del tipo, quanto durerà?» dice Vincent a un certo punto come al risveglio dall’idealizzazione di un amore. Non basterebbero mille alfabeti per formulare la risposta giusta. Ma a dirla tutta in questa storia la «vera» Alice non esiste.
Più che una persona, il suo nome rappresenta una figura, che continua a spostarsi tra le pareti dell’appartamento di un uomo qualunque e nella sua coscienza, proponendosi, come accadrebbe in un teorema, ogni volta in una versione diversa eppure sempre uguale. Una ragazza di carta, simile a quella, indimenticabile, che nel cortometraggio Doll Clothes girato da Cindy Sherman nel 1975, sfogliava un catalogo di indumenti ritagliati su misura da una mano fuori campo.