L’invasione degli Inni
Pagine/In un libro le bizzarre vicende di una forma compositiva che appassiona e fa discutere Se quelli inglese, francese e americano sono i più noti, Giappone e Olanda si contendono il record del più antico
Pagine/In un libro le bizzarre vicende di una forma compositiva che appassiona e fa discutere Se quelli inglese, francese e americano sono i più noti, Giappone e Olanda si contendono il record del più antico
Il 2021 è un anno di grandi eventi sportivi. Venerdì 11 giugno sono partiti gli Europei di calcio e poi, dal 23 luglio all’8 agosto, ci sarà la regina delle manifestazioni sportive, la trentaduesima Olimpiade in Giappone. Per i musicofili è anche il momento di apprezzare una particolare forma di composizione: l’inno nazionale, suonato prima di ogni partita o al momento della premiazione. È proprio grazie al diffondersi della televisione e dei grandi avvenimenti sportivi che gli inni nazionali, un tempo relegati al singolo paese e alle sue cerimonie, sono diventati ormai noti a un vasto pubblico. Questi brani, che per gli abitanti dei rispettivi paesi sono familiari e dati per acquisiti, a un pubblico abituato alla musica classica evocano immediatamente paragoni evidenti: la musica operistica italiana del primo Ottocento, ma anche il grande sinfonismo tedesco. Molti sono solenni, altri probabilmente non supererebbero il vaglio di una causa per plagio, altri ancora sono così malinconici che non ci si crede a immaginarli suonati dopo una vittoria olimpica. Quasi sempre zeppi di riferimenti storici, esprimono sentimenti di stima e attaccamento verso la propria nazione. Inutile negare che in questo tipo di composizioni sono molto diffuse immagini e retoriche figlie dell’epoca di composizione. Retoriche che possono risultare, a seconda dei casi, più o meno sciovinistiche e urtare la sensibilità moderna.
La copertina de «Gli inni nazionali del mondo», il libro di Paolo Petronio
SINGOLE NAZIONI
Ma lasciamo per un istante da parte gli aspetti patriottici, quando non smaccatamente nazionalisti, che li caratterizzano, e proviamo a scoprire come gli inni abbiano spesso vicende incredibili e bizzarre dietro la loro composizione. Di storie eccezionali e interessanti ce ne sono a decine. Per rendersene conto basta sfogliare il bel libro di Paolo Petronio Gli inni nazionali del mondo, una lunga e complessa ricerca, frutto di decenni di studio, che innanzitutto collega l’esistenza degli inni alla storia delle singole nazioni, ma anche ne rileva lo stretto rapporto con la musica classica, sia perché in molti casi gli autori sono celebri compositori, sia perché, al contrario, i temi vengono citati, parodiati, variati partendo da partiture classiche.
Ieri, all’avvio degli Europei, sono risuonati gli inni di Turchia e Italia. Del primo c’è poco da dire: è una marcia militare, composta con lo scopo di motivare le truppe, diventata ben presto un’antifona eroica per la repubblica ottomana. Del Canto degli italiani (più noto come Fratelli d’Italia o Inno di Mameli) tra le tante curiosità che lo caratterizzano probabilmente pochi sanno che è una delle tre composizioni che fanno riferimento a un altro popolo. All’ultima strofa troviamo infatti un accenno al «sangue polacco», bevuto «dall’aquila d’Austria» (gli austro-ungarici) insieme al «cosacco» (i russi). Il contesto storico riporta agli ultimi trent’anni dell’Ottocento, quando proprio Russia, Impero austro-ungarico e Prussia si spartirono le terre polacche, smembrando così la Confederazione polacco-lituana. Mameli non si lasciò sfuggire l’occasione di denunciare l’imperialismo austriaco. A sua volta la Polonia contraccambia con un riferimento all’Italia. Cinquant’anni prima che Goffredo Mameli e Michele Novaro componessero il Canto degli italiani, Józef Wybicki, poeta e patriota polacco, si trovava a Reggio Emilia. Era il luglio del 1797 e a inizio mese il generale Jan Henryk Dobrowski riunì sotto il suo comando circa 1500 uomini con lo scopo di allearsi con Napoleone nel combattere le forze aristocratiche che, all’epoca, si stavano opponendo alla nascita della nuova Repubblica Cispadana. Napoleone promise ai polacchi che, in caso di vittoria, avrebbero potuto riconquistare le loro terre. Wybicki mise tutta questa storia in versi e compose quello che dal 1927 è diventato l’inno nazionale polacco. Nella Mazurka di Dobrowski (l’inno si chiama così), l’autore del brano invita il generale a marciare «dall’Italia alla Polonia». Terzo inno ad accennare a un’altra entità nazionale è quello dell’Olanda, noto semplicemente come Wilhelmus, che risale al 1572 (e per questo lotta con l’inno giapponese per il titolo di più antico). Scritto da Guglielmo d’Orange, il primo verso si conclude con una dichiarazione molto singolare: «Al re di Spagna ho dato lealtà per tutta la vita» e, incredibilmente, questa lirica è rimasta nei quasi 450 anni dalla sua stesura. Chissà che avranno pensato i calciatori iberici quando hanno sentito gli avversari olandesi cantare questa strofa alla finale dei Mondiali 2010. Stupore che potrebbe ripetersi anche agli Europei di quest’anno, dove le due nazionali potrebbero sfidarsi di nuovo.
Molto vecchio è anche l’inno del Giappone, almeno per quanto riguarda il testo, scritto da un anonimo attorno all’anno Mille (la musica invece risale al 1880). Con la durata di 11 battute per 32 caratteri, è anche uno dei canti nazionali più brevi attualmente in uso. Breve, ma un testo comunque c’è. Solo strumentali sono invece gli inni di Bosnia-Herzegovina, Spagna, Kosovo e San Marino.
HIT PARADE
Come per tutti i generi musicali, anche gli inni hanno la loro hit parade della popolarità. Fra i più conosciuti c’è di sicuro quello inglese, God Save the Queen. Il più carismatico e classico degli inni nazionali, usato nel tempo da un gran numero di paesi legati alla monarchia britannica, e ancora oggi utilizzato come inno reale in molte nazioni tra cui Canada, Australia e Nuova Zelanda e, senza alcun imbarazzo, come inno ufficiale del Liechtenstein, anche se con un testo diverso. Eppure la celeberrima melodia non ha origini certe. Si parla di due possibili autori, John Bull e Henry Carey, ma sono vissuti a un secolo di distanza, tanto per capire quanta confusione regni sulla questione. Per la nazione britannica la posizione ufficiale è: autori ignoti. L’inno inglese ha avuto l’onore di riletture e rivisitazioni autorevoli. I Beatles ne eseguirono una loro versione nel famoso concerto sul tetto nel 1969. Jimi Hendrix nel corso della sua esibizione all’isola di Wight del 1970 ritentò, con minor fortuna, la magia dell’anno prima a Woodstock. Nella discografia rock compare inoltre nell’album di debutto dei Gentle Giant e in A Night at the Opera dei Queen. In catalogo anche un’edizione suonata con dei kazoo dai Madness, una versione space rock degli Ozric Tentacles e una, all’insegna delle chitarre elettriche, a opera di Neil Young e i Crazy Horse. Dall’altra parte della Manica, altrettanto famoso è il canto nazionale della Francia. La Marsigliese fu scritto durante la Rivoluzione francese ed è tra le composizioni più riconoscibili e note nel mondo. Negli anni è diventato il canto repubblicano per eccellenza, ma incredibilmente fu scritta da un militare monarchico. L’autore, Claude Joseph Rouget de Lisle, era infatti un ufficiale dell’esercito monarchico francese, anche se favorevole all’introduzione di una Costituzione e quindi sostenitore della prima fase della Rivoluzione. Su consiglio del sindaco di Strasburgo, suo amico, Rouget de Lisle scrisse una serie di canzoni patriottiche tra cui Il canto di guerra per l’armata del Reno, dedicato agli eserciti francesi che difendevano la Francia dai tentativi di restaurazione delle potenze europee. La canzone venne adottata da alcuni volontari provenienti da Marsiglia accorsi a difendere Parigi e così divenne La Marsigliese. Poche settimane dopo la prima esecuzione del canto, però, il re venne arrestato dal nuovo regime rivoluzionario. Rouget de Lisle protestò, fu cacciato dall’esercito e degradato e solo per casualità riuscì a sopravvivere al periodo del Terrore, in cui furono uccisi centinaia di sostenitori della monarchia.
Quanto a popolarità secondo a nessuno è Star-Spangled Banner, inno nazionale degli Usa. L’inno americano riesce a fondere la maestosità melodica di God Save the Queen al battagliero vigore della Marsigliese, con parole che accendono gli animi tipo: «E la bandiera adorna di stelle per sempre garrirà sulla terra dei liberi e la patria dei coraggiosi». I versi, di un avvocato del Maryland, Francis Scott Key, si riferiscono in termini a dire il vero molto retorici a un episodio bellico, l’assedio da parte delle truppe britanniche di Fort Henry nel 1812. La bandiera era rimasta issata sotto le bombe, simbolo appunto della «terra dei liberi e dei coraggiosi». La poesia non fu scritta pensando alla musica, ma fu adattata successivamente a una famosa canzone popolare composta però dagli odiati britannici (per di più per celebrare il piacere delle libagioni e la convivialità). Oggi di quel poema si canta solo una strofa. Forse anche per non incappare in alcuni versi decisamente spinosi. Francis Scott Key era infatti uno schiavista. Per lui, come recita un suo scritto, i neri erano «una razza di persone inferiori che rappresentano il male di ogni comunità». E la penultima strofa di Star-Spangled Banner ha un verso che recita «nessun rifugio salverà i mercenari e gli schiavi dal terrore». Al conflitto avevano infatti partecipato, al fianco degli inglesi, anche alcuni neri liberati. La fama del canto statunitense è legata non solo al cinema, agli eventi sportivi dove risuona spesso ma pure alle numerose reinterpretazioni. Anche versioni dissacranti, come quella magistrale di Jimi Hendrix a Woodstock, che con le distorsioni della chitarra trasforma le note dell’inno nei sinistri e laceranti rumori di un bombardamento in Vietnam. Ovviamente una versione così poco ortodossa causò parecchie polemiche. Ma un anno prima un’altra interpretazione aveva scandalizzato i benpensanti. Il cantante portoricano José Feliciano in occasione di una partita delle World Series di baseball del 1968 aveva rielaborato il brano in chiave folk, in sintonia con le canzoni di protesta di quegli anni. In molti gridarono al tradimento, ma quella versione, emozionante, sofferta e di certo ben poco marziale, venne stampata su un 45 giri che per la prima volta portò Star-Spangled Banner in classifica.
VERSIONI ALTERNATIVE
A proposito di versioni dissacranti, merita un cenno la storia dell’inno del Kazakhstan, inno nazionale scritto dall’allora presidente in carica. Nel 2006 Nursultan Nazarbayev, non proprio il prototipo di un presidente democratico, decise di sostituire il vecchio inno con uno nuovo. Quello precedente era stato scritto dopo l’indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991. Tra gli autori c’era anche la poetessa Zhadyra Daribayeva, una delle poche donne mai coinvolte nella scrittura di un inno nazionale. Nazarbayev non si impegnò più di tanto: prese una canzone molto popolare uscita nel 1956, Il mio Kazakhstan, mantenne identica la musica e cambiò qualche parola. E oplà, il gioco era fatto. Dell’inno è stata scritta una versione alternativa da Sacha Baron Cohen, attore e comico britannico ideatore del personaggio del giornalista kazako Borat, quello del film Borat-Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazionale del Kazakistan. L’inno di Borat, che parla del bigottismo della società kazaka ed è molto critico verso Nazarbayev, fu erroneamente suonato durante una cerimonia di premiazione di un trofeo internazionale di tiro a segno nel 2012 in Kuwait. Gli organizzatori lo avevano scaricato da Internet, scambiandolo per quello vero. Assolutamente da vedere su Youtube l’espressione dell’atleta kazaka al risuonare dell’inno nella versione di Sacha Baron Cohen. Ci sono casi invece in cui la firma del testo è particolarmente prestigiosa. L’inno del Senegal ad esempio fu scritto nel 1960 dal presidente Léopold Sédar Senghor, letterato e massimo ideologo della negritudine. Ma non è l’unico caso. L’inno nazionale dell’India vanta addirittura la firma di un premio Nobel, Rabindranath Tagore. Quello del Burkina Faso fu scritto dal rivoluzionario marxista Thomas Sankara, che nel 1983 divenne presidente del paese e morì assassinato nel 1987. Sankara era chiamato anche il Che Guevara africano e rappresenta una singolare figura di militare, politico e uomo di lettere con pochi uguali nella storia.
In quanto composizioni musicali anche gli inni nazionali non sfuggono alla implacabile regola del plagio. Il caso più grottesco è legato all’inno della Bosnia Erzegovina, già di per sé destinato a essere accettato a fatica in una terra di aspre divisioni etniche. È stato scritto nel 1997 da Dusan Sestic che, per sua stessa ammissione, partecipò al bando con la sola intenzione di guadagnare uno dei premi in denaro messi in palio. Fu scelto con sua grande sorpresa, ma anni dopo qualcuno si è accorto che il tema era praticamente identico a quello dei titoli di testa del mitico Animal House. Sestic ha ammesso la somiglianza, ma ha negato di aver mai visto il film. L’inno dell’Uruguay è uno dei più movimentati del mondo e fu scritto nel 1846 dal compositore Francisco Jose Debali. La musica è più vicina a un’operetta che alla solennità tipica degli inni nazionali e infatti ricorda molto ma molto da vicino una sezione della Lucrezia Borgia di Gaetano Donizetti (che, guarda caso, fu rappresentata a Montevideo nel 1841). Qualche dubbio sorge anche all’ascolto dell’irruento inizio dell’inno dell’Argentina, che in certi momenti rammenta una composizione di Muzio Clementi e per quello del Sudafrica, che sembra vagamente richiamare una composizione del gallese Joseph Parry. A proposito dell’inno sudafricano, va ricordato come i canti nazionali in alcuni casi devono tenere conto di differenze culturali, rispettare diverse etnie, diversi ceppi linguistici. L’inno della Nuova Zelanda, per esempio, contempla una versione col testo in inglese e un’altra in lingua maori. All’occorrenza le strofe possono essere alternate. Va da sé che di quello irlandese esiste la versione in gaelico, ma il record assoluto di multilinguismo spetta appunto al Sudafrica, il cui canto è equamente diviso in quattro idiomi: inglese, afrikaans, sesotho e zulu.
CLASSICI E MODERNI
Un’altra particolarità è che, a parte alcuni immutabili monumenti, il territorio degli inni è molto più movimentato di quanto immaginiamo. Cambiano, si rinnovano, muoiono e rinascono. Il più recente adottato nel mondo è quello del Nepal. È stato ufficializzato nel 2007, seguendo di poco quello ricordato del Kazakhstan, della Serbia, e quello in lingua pashtu dell’Afghanistan, tutti adottati nel 2006, e quelli di Montenegro, Georgia e Iraq del 2004. L’inno nazionale nepalese è l’unico in tutto il mondo suonato con una tastiera della Casio, la società giapponese che produce articoli elettronici. Venne composto alla fine di dieci anni di guerra civile tra i ribelli maoisti e il re. Sembra un po’ una canzoncina da recita scolastica, ma non ci si deve lasciar ingannare: è uno degli inni più politici di tutta l’Asia, visto che esalta le differenze etniche, linguistiche, religiose e culturali del Nepal, definita «nazione progressista». Le parole sono del poeta Byakul Maila, che dovette sottoporsi a diversi colloqui con le autorità maoiste per dimostrare che in nessun momento della sua vita era stato fedele alla monarchia. Non ci riuscì perché venne fuori una sua raccolta di poesie che conteneva anche un contributo del re, ma ciò non impedì che il suo testo fosse accettato.
E a proposito di ritorni, agli Europei e alle Olimpiadi di Tokio non mancherà di risuonare uno degli inni tra i più tormentati della storia, quello russo. Difficile perfino raccapezzarsi nel groviglio di versioni che si sono succedute nel tempo. Attualmente (dal 2000) è l’inno della Federazione Russa, ma è la riproposizione, con testo opportunamente aggiornato, del vecchio inno sovietico, adottato nel 1943 in sostituzione dell’Internazionale. Nella prima versione venivano citati Lenin e Stalin, poi nel 1977 fu rivisto sopprimendo il nome di Stalin. Abolito del tutto nel 1991 e sostituito da una melodia senza parole intitolata Canto patriottico, l’inno è stato poi recuperato (togliendo però il riferimento a Lenin e al comunismo) da Vladimir Putin. In tutto questo groviglio un solo punto fermo. Il testo originario del 1943 e le due successive modifiche hanno un unico autore: Sergej Vladimirovic Michalkov, padre del noto regista Nikita Michalkov (Oci ciornie, Il sole ingannatore), ma soprattutto l’uomo che venne chiamato per ben tre volte a scrivere il testo dell’inno nazionale russo.
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