«In un’epoca che ansima perché non trova il tempo per la vita, campa nell’orrore di ogni dipendenza (…) investire nell’inafferrabilità di conversazioni speciali, così le chiamava Freud, assume di nuovo un significato controcorrente». La psicoanalisi è attuale perché inattuale, contemporanea perché non contemporanea, utile perché inutile. Questo ribadisce Nicole Janigro nel suo piccolo ma prezioso volume dedicato all’eredità di quella scienza e tecnica dell’inconscio psichico che è la psicoanalisi di Freud (Psicoanalisi. Un’eredità al futuro, Mimesis). Inattuale se l’attualità è quella cognitivo-comportamentale, non contemporanea se la contemporaneità è quella della «crisi della ragione», inutile se l’utilità è quella della restitutio ad integrum, ossia del ripristino di un’unità di benessere che si presuppone solo momentaneamente perduta. Siamo perennemente in perdita (Hilflosigkeit), perplessi (Ratlosigkeit) e goffi (Unbeholfenheit) ma quello offerto dalla psicoanalisi non è un aiuto.

La psicoanalisi è l’esperienza della «cordialità del reale» (Pontalis) solo, però, dopo averne (as)saggiato l’angoscia. Freud voleva trasmetterla a un’umanità nuova, un’umanità laica ancora a venire, terza rispetto a quella dei medici e dei preti perché al di là dei soggetti supposti sapere e dei confessori. Ecco perché la sua eredità è, per definizione, un’eredità al futuro.

MA QUESTO NON SIGNIFICA che il suo avvenire sia l’avvenire di un’illusione. Se è a-venire, «da conquistare ogni volta da capo» come la vita per Jung, la sua trasmissione pare nondimeno «compiuta». Quella offerta dalla psicoanalisi è infatti un’occasione tutta (al) presente e se la sua eredità è al futuro è perché il presente è sempre (ancora) da cogliere. Anche il presente è al futuro per definizione, una definizione in cui «l’incontro tra due individui in carne e ossa è il fattore decisivo».
I corpi sono i limiti ma i limiti sono sempre, insegna Bion, barriere di contatto, luoghi di confine, soglie impersonali in cui l’imprevisto si lascia vedere e la sorpresa accade. E se «nell’analisi non c’è sorpresa, in ciascuno dei due interlocutori, non c’è analisi affatto» (Fachinelli). Quella della stanza d’analisi è una porta che, come la porta del romanzo di Magda Szabó, separa, mentre congiunge, l’alto e il basso, il pubblico e il privato, l’artistico e il quotidiano, «Picasso e la tazza del cesso», perché quello analitico è «un metodo molto pericoloso che ha inventato una relazione spazio-temporale dove avvengono conversazioni speciali»: al contempo intime ed estranee, soggettive e oggettive, maschili e femminili, private e pubbliche.

OGNI CASO, ogni caso individuale, in analisi diventa un caso, un caso universale, universale perché singolare. Ogni dramma personale si scioglie nella miseria comune, il solo veicolo della gioia ecstatica ed eccessiva che, per Fachinelli, è l’altro fattore decisivo. La gioia eccessiva è una gioia altra, un’altra gioia, gioia anzitutto dell’altro. «Non posso fare a meno di un altro, e l’unico altro, l’alter, sei tu», confessa Freud a Fliess e in analisi si parla, si scrive e si pensa almeno in due: il terzo, quello analitico, garantisce che la diade non sia speculare, che vi sia, cioè, reciprocità ma non specularità. Lacan parlava di «consonanza di inconsci». Mitchell di una relazione che è «totalmente intrapsichica e totalmente interpersonale». Una paziente di Janigro di «coppia individuale». Ciascuno del «doppio cieco» che caratterizza la situazione analitica come la più significativa innovazione introdotta nel discorso occidentale dopo la «nobile sofistica di Protagora e Socrate» (Fachinelli). Se la sua eredità è al futuro, lo è, allora, come la memoria di Bion: un’eredità non è nient’altro che un’immagine, di Bergson, di Jung o di Barthes, in cui la ferita del passato si converte in feritoia del futuro.