Quando nel 1816 Gioachino Rossini manda in scena Il Barbiere di Siviglia, ancor più di quanto ha fatto Mozart esattamente trent’anni prima con Le nozze di Figaro, cerca di elaborare un «nuovo genere di spettacolo» lanciando la sua personale sfida alla tradizione dell’opera buffa italiana incarnata da Giovanni Paisiello, che nel 1782 ha messo in musica proprio Le barbier de Séville di Beaumarchais. Il fatto che, come e più che in Mozart, la rilettura della tradizione fatta da Rossini sia vitalistico-parodica, radicalizzando in «commedia» il «dramma giocoso» di Paisiello, ce lo ricorda nel libretto di Cesare Sterbini il personaggio di Bartolo, goffo antagonista, che della misteriosa aria dell’Inutil precauzione cantata da Rosina, smaliziata protagonista, dice: «Sarà al solito un dramma semiserio; / un lungo, malinconico, noioso, / poetico strambotto». Il Barbiere rinuncia dunque a qualunque sentimentalismo lacrimevole proveniente dalla tradizione semiseria e traduce la vis comica dell’originale in musiche indiavolate e atmosfere surreali, adattando al presente l’analisi impietosa dell’intraprendenza borghese fatta da Beaumarchais attraverso una miscela irresistibile di farsa e commedia di carattere.

AL TEATRO ALLA SCALA di Milano il Barbiere manca dal 2015, quando per la decima volta è stato riproposto il glorioso allestimento del 1969 di Jean-Pierre Ponnelle (diretto da Claudio Abbado); in mezzo secolo l’unico tentativo di innovare risale alla regia di Alfredo Arias del 1999, mai più ripresa. L’allestimento dell’opera in scena fino al 15 ottobre, con la regia di Leo Muscato, le scene di Federica Parolini, i costumi di Silvia Aymonino, le luci di Alessandro Verazzi e le coreografie di Nicole Kehrberger, pur nel solco del dinamismo esuberante di Ponnelle, trova una sua identità impiegando l’espediente del teatro nel teatro, arcinoto sì, ma qui giustificato da una lettura attenta del testo. «Tutti i personaggi principali del Barbiere – annota Muscato – hanno a che fare con la musica»: nel libretto Fiorello entra in scena con dei musicanti, Almaviva canta due serenate, suona chitarra e clavicembalo, Rosina studia musica e canta un’aria, Bartolo canta un’aria, Don Basilio è un’insegnante di musica, Figaro entra in scena con la chitarra; in Beaumarchais Figaro è un librettista caduto in disgrazia per il recente fiasco di una sua opera a Madrid. Di qui l’intuizione, sviluppata con grande coerenza drammaturgica, di ambientare l’opera in un teatrino decadente di fine Ottocento in cui don Bartolo è l’impresario, Rosina la vedette, Figaro il factotum (suggeritore, trucco, parrucco, sarto, macchinista ecc.), don Basilio il maestro di musica, Berta la coreografa, Ambrogio l’addetto alle pulizie, mentre l’esterno Almaviva «forse è l’anonimo autore de L’inutil precauzione».

I CAMBI DI SCENA sono rapidissimi al calar del sipario interno e allo schioccare delle dita di Figaro, alla ricerca di «una leggerezza che potesse trasformarsi di continuo senza dover arrestare mai l’azione». La direzione di Riccardo Chailly, forse un po’ troppo preoccupato di smarcarsi dall’ineffabile modello di Abbado e di cercare suoni nuovi, da un lato mette a fuoco nella partitura prelibatissimi elementi armonici che anticipano il romanticismo maturo e dall’altro, dall’altro frena la corsa musicale rossiniana e opacizza la leggerezza dell’allestimento, imbrigliando parzialmente la scioltezza della performance degli ottimi cantanti-attori Mattia Olivieri (Figaro), Svetlina Stoyanova (Rosina), Marco Filippo Romano (Bartolo), Maxim Mironov (Almaviva), Nicola Ulivieri (Basilio).