Leggendo La distinzione di Gilda Policastro (Giulio Perrone, pp. 200, euro 20) impossibile non pensare al «male oscuro» di Berto e di Gadda, senza il quale non avremmo avuto tanta della migliore letteratura modernista e «attualissima». Trattasi del presunto mal du siècle rivelatosi, col senno di poi, inaggirabile mal de l’homme: quel groviglio di impulsi che ci fa avvertire in vita l’incombere osceno della morte, fino a trasformare l’esistenza stessa nell’interminabile referto che scandisce i tempi e i modi di quell’incombere. Se la morte propria è l’inimmaginabile per definizione (possiamo tratteggiare alcune porzioni della scena, mai l’intero, come nell’intensa sequenza anaforica introdotta da «Sono già morta un sacco di volte»), la morte di una persona cara è quanto di più tangibile e irreparabile possa invadere il normale corso della propria biografia. Nominarla fino in fondo non è possibile. La si può soltanto provare a elaborare inventando una lingua capace di dirne la lacerazione, l’abisso che ha dischiuso.

POLICASTRO COMPIE proprio quest’operazione: inventa una propria grammatica del trauma nel tentativo di ricacciare entro le maglie della formalizzazione testuale quel troppo di thanatos che la psiche, come la vita, reca in sé.
Nel poemetto di apertura, Precari, il repentino abbassamento di tono (dal colloquiale al gergale, passando per il quasi-anacoluto: «Mamma tu lo sai/ che a un idiota qualunque/ (…) gli danno quanto meno cento euro», «se ti dice male») circoscrive una mancanza non verbalizzabile: «Mamma ti vengo a prendere, alzati,/ dai aria alla stanza e, soprattutto,/ fatti trovare». A fronte delle ellissi e dei rimossi, il trauma è più spesso proiettato sulla sovrabbondanza di oggetti, oggetti più che prosastici (ospedalieri, soprattutto, ma anche più genericamente infra-ordinari), ed è forse il trauma dell’oggetto a condensare in maniera più evidente una dialettica fra corporeità-reificazione e virtualità-sublimazione.

DA UNA PARTE, i «referti e terapie in carne e ossa», i letti, le corsie e gli aghi nelle Gite ospedaliere (chiaro, ma certo non unico, richiamo ad Amelia Rosselli), la giacca di Salim, le «quattro mucose dell’antro gastrico». O l’«ossimoro permanente delle diagnosi» in quell’Autunno di gerd che, rovesciando ironicamente l’ipotesto delle Occasioni (il Carnevale di Gerti), ne conserva tuttavia il senso claustrofobico di condanna – a restare nel «gorgo degli umani affaticato», nel limbo del presente «ove è negato pur morire».
Dall’altra parte, il soggetto si esorta, non senza una valenza metatestuale, a uno sforzo di nominazione elaborante della propria malattia: «Verticalizza il dolore nella serie (elenco di farmaci,/ a seguire)/ ammorbidisci/ (rilascia, incapsula, guarisci)». Analogamente, i riferimenti allo «scrolling» e al «googlare», i testi composti con Chat GPT, il ritorno dell’eavesdropping e del sarcasmo sui libri e i letterati («Brutta gente,/ la letteratura»), già presenti in lavori precedenti dell’autrice, potrebbero a loro volta ascriversi alla polarità razionalizzante e demistificatoria insita in una tale operazione, sviluppata mediante un sapiente gioco di deviazioni e spostamenti del focus.

SEMBRA, ad ogni modo, che nella Distinzione il trauma assuma la valenza di innesco empirico primario che conduce a una risemantizzazione della totalità del reale nel suo complesso. Il trauma diventa, in altre parole, dispositivo di significazione in sé, produttore di nuovi significati tutt’altro che conciliati, e pertanto aperti a farsi esperienza collettiva, in opposizione cosciente a quelli (ben più «digeribili») che la narrazione midcult vorrebbe associare alla testimonianza del dolore, del lutto, della violenza della storia.