«Il più sicuro ma più difficile mezzo di prevenire i delitti è l’educazione». Sono trascorsi 250 anni da quando Cesare Beccaria pubblicò «Dei delitti e delle pene». Suona rivoluzionaria oggi, nel pieno di ondate populistiche, un’affermazione così nitida nell’affidare all’educazione la prevenzione criminale. La repressione dei crimini negli scorsi 250 anni si è invece ancora prevalentemente rivolta al diritto penale.

[do action=”quote” autore=”Cesare Beccaria, 1764″]«Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità è tirannica»[/do]

«Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità è tirannica», scriveva Beccaria evocando Montesquieu. Il nostro è dunque un sistema giuridico tirannico che ha trasformato il diritto penale in qualcosa di ben diverso rispetto a quello che dovrebbe più umilmente rappresentare.

È un diritto che contiene tracce di Stato etico, che giudica gli stili di vita delle persone e non i fatti da loro commessi, che ha progressivamente dismesso il principio di offensività.

La prospettiva educativa si è ritratta di fronte all’invadenza del diritto penale.

Tanti purtroppo sono gli esempi di una legislazione e di una pratica penale del tutto indifferenti agli insegnamenti di Cesare Beccaria. Non vi è traccia «dell’assoluta necessità» di cui scriveva Beccaria nel lontano 1764 in tutti quei delitti di creazione artificiosa presenti nella nostra legislazione ipertrofica e umanamente non conoscibile, in tutti quei regimi penitenziari che si affidano alla durezza dei trattamenti, in un sistema sanzionatorio che si è affidato quasi in via esclusiva al carcere per punire e rieducare.

Non v’è seguito di quell’insegnamento nemmeno nella fase che precede la condanna, eppure, come scriveva Beccaria, «la privazione della libertà, essendo una pena, non può precedere la sentenza se non quando la necessità lo imponga». Un’altra riflessione di estrema attualità, se consideriamo che oggi, proprio per la durata dei processi e per l’impiego massiccio della custodia cautelare, il momento della pena tende, di fatto, a coincidere con il tempo lungo del processo (la vera pena è, spesso, il processo!).

Il garantismo in Italia ha un passato nobile che affonda le radici nell’illuminismo giuridico.

La dignità umana e la libertà costituiscono la soglia non superabile da parte di chi ha il potere.

La nostra codificazione penale non è riuscita a solcare degnamente il sentiero illuminista. È stata vittima del realismo politico, delle tragedie totalitarie, della demagogia securitaria.

Non è un caso che a 84 anni dalla approvazione del codice Rocco in piena era fascista non si è aperta ancora una vera e propria discussione politica e parlamentare per un nuovo codice penale che riduca i delitti e risistemi le pene.

C’è dunque un futuro per il garantismo penale? È solo consistente nel non far evaporare gli insegnamenti di Beccaria? Come possiamo tradurre nella post-modernità quelle domande sul perché, chi e come punire che hanno finora trovato risposte banali e ripetitive su scala globale?

Di passato e futuro del garantismo si discuterà il 29 e 30 di ottobre alla Università Roma Tre (Dipartimento di Giurisprudenza) in occasione dei 250 anni dalla pubblicazione di «Dei delitti e delle pene».

Di fronte all’ansia politica che vuole rassicurare simbolicamente l’opinione pubblica attraverso nuovi delitti e nuove pene va riaperto un dibattito intorno ai limiti del potere di punire.