Tutto comincia con un pollo. Un contadino della contea di Centerville ne denuncia la scomparsa. Due poliziotti indagano sul fattaccio. Il pubblico già sa che dietro c’è uno zombi. Ma cos’è uno zombi? È uno che ritorna, un non morto. E ovviamente il primo a tornare è il genere stesso. Che per altro non è mai morto, ma al contrario si è evoluto.

COME RICORDA Jarmusch stesso nelle sue varie interviste a Cannes, all’origine del genere c’è il vudù. Nel noto film-paradigma di Tourneur, Ho camminato con uno zombi (1943) il mostro non è una semplice variante tropicale del vampiro. Si tratta di un personaggio radicato nell’universo e nell’imaginario coloniale. È uno schiavo di colore che torna a vendicarsi turbando le notti di bianche fanciulle appartenenti alle famiglie dei coloni. Nella coscienza infelice dell’aristocrazia coloniale (e del cinema che la mette in scena) lo zombi è, anche nel suo ritorno, essenzialmente ciò che era in vita: uno schiavo.

Quando il genere risorge nelle mani di Romero, le cose cambiano. Il non morto non è più un uomo di colore, né uno schiavo o un automa telecomandato dal rito vudù; è l’uomo qualunque, posseduto da una pura pulsione mortifera. Romero esplora tutti i meandri del suo soggetto, adattandolo alla critica del sistema politico e morale dell’America che lotta pro e contro i diritti civili, infine della vittoriosa società dei consumi. Jarmusch fa rivivere momenti di tutta la galassia degli zombi classici. Mettendo insieme la paranoia dell’apocalisse nucleare (qui diventata ecologica) e la passione dello zombi per il consumo (telefoni, caffé ecc), il tutto dentro il brodo dell’America popolare che ha votato Trump. In questo brodo c’è ovviamente anche l’altra America, quella che non ha votato Trump e che è preoccupata per lo stato di salute del pianeta. Cosi Jarmusch sembra voler decostruire il genere riportandolo ad un livello più originario: l’apocalisse.

ORA, RISPETTO alla fine ci sono sempre due strade: parlare del dopo. Oppure parlare dell’ora non ancora. Detto altrimenti: quand’è che comincia la fine? Questa domanda è quella più politicamente rilevante. E se il film di Jarmusch vale qualche cosa (a parte il suo lato comico, che non è comunque indifferente) è proprio nella misura in cui tenta di sollevare questa domanda. Il tempo in cui viviamo è quello in cui da ogni lato si denuncia la scomparsa del pollo (per dirne una). E quella in cui tutti sanno perché il pollo è scomparso (fuor di metafora, perché i ghiacci fondono, perché il mare si inacidisce, perché le api scompaiono, ecc). È a questo momento di coscienza incosciente che Jarmusch tenta di dare un volto. Gli dà del resto tutti i volti, e nel suo film c’è mezza Hollywood (e mezza New York).

A molti questo gioco con il genere e con il tempo non è piaciuto. In effetti, se ci si attacca troppo al gioco di simbologie e di citazioni di cui il film straripa, si finisce per dire: vabbè, e allora ? Molti commentatori hanno tentato di interpretare i momenti, numerosi, in cui il film, per bocca di uno dei suoi eroi, si rivolge allo spettatore per dire: sono solo il personaggio di un film. E a molti è sembrato che Jarmusch volesse prendere le distanze da sé o dal genere.

È UN’ANALISI troppo seria, che rischia al tempo stesso di non cogliere quello che Jarmusch ha di maledettamente giusto e serio da dire. I morti non muoiono, come ogni opera simbolica, va preso semplicemente alla lettera. I personaggi conoscono la sceneggiatura, ovvero sanno come quello che accade e come la storia va a finire. E noi anche.