Il caso di autori che scelgono di non scrivere nella lingua ricevuta alla nascita non è poi raro: l’esempio del polacco Józef Teodor Konrad Korzeniowski divenuto come Joseph Conrad un maestro della letteratura inglese, è forse il primo che viene alla mente. Ma accanto al suo nome se ne possono allineare altri, dall’irlandese trapiantato a Parigi Samuel Beckett alla quantità di scrittori provenienti dall’Africa o dall’India, che hanno trovato nella lingua coloniale – ancora l’inglese, oppure il francese o il portoghese – il veicolo migliore per presentarsi al mondo dei lettori. Per non parlare del grande Juan Rodolfo Wilcock e più vicino a noi di Jhumpa Lahiri, entrambi trasmigrati all’italiano – e nel caso di Lahiri, statunitense di origine bengalese, la sua decisione ormai quasi decennale suscita ancora reazioni in cui si mescolano ammirazione e sconcerto («C’è qualcosa di meravigliosamente provocatorio nel modo in cui ha abbandonato l’inglese, come un bambino che afferma di non volersi più mettere le scarpe», ha scritto mesi fa Jacqui Cornetta sulla Los Angeles Review of Books).

Alla lista dei transfughi linguistici si aggiunge ora la spagnola Virginia Feito, poco più che trentenne ex copywriter residente a Madrid, il cui romanzo d’esordio, Mrs March, scritto in inglese e ambientato a Manhattan, è uscito l’estate scorsa negli Stati Uniti per Liveright: un thriller psicologico al cui centro c’è una donna non più giovanissima, moglie di uno scrittore di successo, ossessionata dalle vere o presunte analogie fra la figura centrale dell’ultimo libro del marito – «una puttana con cui nessuno vuole andare a letto» – e lei stessa. In Italia ancora non se n’è parlato, ma possiamo stare certi che presto approderà pure da noi, se non altro perché Elizabeth Moss, la bravissima interprete fra l’altro della serie televisiva tratta dal Racconto dell’ancella di Margaret Atwood, si è accaparrata i diritti del libro con l’intenzione di farne un film del quale ovviamente sarà la protagonista («Non vedo l’ora di affondare i denti in questo personaggio», ha detto l’attrice).

Intanto, comunque, il romanzo ha ricevuto recensioni più che calorose negli Usa e nel Regno Unito («uno studio psicologico straordinariamente intenso da parte di una scrittrice che si mantiene in linea con i grandi nomi che evoca – uno fra tutti, Daphne Du Maurier» ha scritto per esempio Sarah Ditum sul Guardian), e adesso anche in Spagna, dove il libro è appena uscito in traduzione come La señora March per Lumen. Inizialmente guardinghi, i critici spagnoli hanno ammesso che il testo contiene elementi di reale interesse: «Un caso letterario, per fortuna, più che giornalistico», ha sintetizzato su El País José María Guelbenzu, spiegando poi che «un esordiente ha bisogno di una doppia esperienza, senza la quale scrivere è come gettarsi nel vuoto: esperienza di vita ed esperienza letteraria» e che «Virginia Feito dimostra ampiamente di soddisfare entrambi questi requisiti».

Resta aperto l’interrogativo sul perché Feito, di madrelingua spagnola ancorché di formazione cosmopolita (il padre è stato ambasciatore a Parigi e lei ha fatto all’estero parte degli studi), abbia deciso di scrivere in inglese. «Mi ci sento più a mio agio», ha risposto laconicamente la giovane scrittrice a chi le ha posto la domanda, e sicuramente è vero. Ma è difficile non ipotizzare che in un mondo sempre più prepotentemente anglofono non si stia formando una nuova generazione di autori che preferiscono confezionare libri pronti per il mercato globale, evitando il passaggio obbligato della traduzione e optando subito per la lingua imperiale. Sarebbe interessante sentire cosa ne pensa Jhumpa Lahiri.