Quando nella Genesi si racconta come Dio diversificò le lingue creando la confusione necessaria a spingere gli umani negli angoli più remoti della Terra, si dà per implicito un notevole passaggio antropologico, accennando per esempio al legame profondo tra parola e produzione di opere. Ma il punto più dibattuto è un altro: la Genesi sembra considerare la diversità linguistica una forma di confusione casuale. Contro questa idea Andrea Moro spende buona parte del suo lavoro più recente, Le lingue impossibili (Cortina, pp. 139, euro 16,00).
Il linguista italiano, i cui lavori godono di notorietà internazionale, punta contro un preciso obiettivo polemico: «le lingue consistono di convenzioni culturali di natura arbitraria». Secondo questa idea, spesso attribuita ai pilastri del pensiero linguistico europeo (Saussure e Wittgenstein), le parole umane godrebbero di possibilità di articolazione e cambiamento prive di limiti biologici, logici o d’altro tipo. Moro mostra con chiarezza la necessità di lavorare a un punto di vista fondato, invece, sulla nozione di «limite». Sebbene diversissime tra loro, le lingue umane sarebbero espressione non solo di una facoltà comune alla specie (cosa che anche Saussure e Wittgenstein sottoscriverebbero) ma di ciò che Noam Chomsky ha chiamato una «grammatica generativa»: quasi settanta anni di studi da parte di allievi entusiasti o critici perplessi sta ancora cercando di chiarire in cosa essa consista.

Una correzione di tiro
Ora, dice Moro, la grammatica comune a tutte le lingue sarebbe costituita da una serie di capacità di base e da un gruppo di regole restrittive. Moro concorda con il padre della grammatica generativa sul fatto che i parlanti umani condividono la capacità di produrre sequenze ricorsive, cioè in grado di applicarsi al proprio risultato. Prendiamo la frase: «Paolo beve». È esclusiva delle lingue verbali il fatto che ogni locutore possa espandere un enunciato aggiungendo componenti sia nella sua parte iniziale che finale e dire «Domani Paolo beve», «Paolo beve il frullato», «Paolo beve non il frullato ma la Coca-cola». Questa proprietà espansiva è certamente fondamentale, ma Moro insiste sul fatto che essa rischia di suggerire una immagine ingannevole del linguaggio, come fosse una enorme macchina animata dai principi fondamentali della logica. Dunque, sulla base di alcuni studi sperimentali, propone una correzione di tiro.

Per un verso, chi crede che il linguaggio verbale sia un artefatto convenzionale ha torto: il linguaggio, come un qualsiasi corpo fisico, si muove all’interno di una serie di limitazioni strutturali. Per un altro, questi limiti non sono riconducibili a una qualsivoglia forma di razionalità. Le lingue sono scientificamente scandalose perché modellate da quel che Moro chiama una «setaccio irragionevole». Non esiste, ad esempio, una lingua che segua la regola: «inserisci la parola non come quarta parola della frase», e non per semplicità interpretativa o per efficacia comunicativa. L’assenza di regole del genere (o la presenza di altre) non ha un radicamento razionale, è solo un fatto della natura che esibisce limiti strutturali, come capita alla morfologia dei fiocchi di neve o delle banane. A tal riguardo, occorre sottolineare la risolutezza argomentativa del libro: Moro non sostiene semplicemente che nessuna lingua esibisce una regola per la costruzione di enunciati negativi che obbliga a usare il «non» come quarta parola, bensì si spinge a affermare che una lingua del genere non può esistere. La posta in gioco sta nel risalire all’esistenza di quel che si presume sia una grammatica inderogabile per qualunque parlata umana presente, passata e futura.

Il saggio mostra le proprie ragioni in un modo ingegnoso e, per certi versi, discutibile. Indica, ad esempio, alcuni risultati sperimentali di indubbio rilievo: quando si invita un gruppo di parlanti tedeschi a imparare alcune regole linguistiche di una lingua sconosciuta (spacciata, ad esempio, come italiano standard) si scoprono due tipi di attivazione dei circuiti neuronali. Se i parlanti sono alle prese con regole ben note ai linguisti (l’inserimento di una relativa in una frase principale), nel loro cervello si attivano le aree attese, legate ai circuiti verbali della cosiddetta «area di Broca». Se invece i soggetti apprendono regole inesistenti come quella della negazione in quarta posizione, in essi si attivano circuiti di ordine differente. Da questi dati Moro deduce una prova empirica a sostegno dell’idea che il modello delle lingue arbitrarie e convenzionali è superata.

Forse, però, il passaggio argomentativo è troppo veloce. Non è detto, infatti, che questi risultati siano sufficienti a mettere nella lista del robivecchi la tradizione filosofica legata a Saussure o a Wittgenstein. In più di una circostanza si ha persino la sensazione che i risultati riassunti nel libro siano di grande rilievo proprio per la ragione opposta. In primo luogo, gli esperimenti descritti da Moro mostrano qualcosa che di certo non è banale: i parlanti del test di fatto imparano regole linguistiche improbabili come quella della negazione in quarta posizione all’interno di una frase. Il dato, proprio perché sotto i nostri occhi, rischia di sfuggire: i soggetti imparano la regola.

L’attivazione di circuiti cerebrali diversi da quelli attesi non testimonia una impossibilità linguistica (i soggetti infatti apprendono!), quanto una plasticità tale da mettere il parlante in condizione di rendere possibili (cioè comprese e applicate) le regole più astruse. L’insistenza circa il carattere irragionevole dei limiti che circoscrivono il novero delle lingue è un dato, infine, che pare confermare il carattere arbitrario del linguaggio.

Quando i filosofi e i linguisti della tradizione europea insistono sull’arbitrarietà linguistica non intendono sostenere che per parlare una lingua sia sufficiente (o necessaria) una convenzione discrezionale come si trattasse di stabilire quale font adottare per il logo di un Ministero. Sia Saussure che Wittgenstein sottolineano, invece, l’autonomia del linguaggio: dalle cose di cui parla (la forma delle sigarette, il colore dei cavalli), dalle strutture razionali della logica o da un unico circuito di attivazione neuronale.

La risposta di Andrea Moro
Il commento ai risultati scientifici riportati nel mio libro Le lingue impossibili da parte Marco Mazzeo mi pare cogliere in modo molto preciso e sintetico la questione di fondo e mi dà l’occasione di ribadire a mia volta in modo altrettanto sintetico il punto fondamentale. Non esistono lingue impossibili a priori: esistono lingue (artificiali) che non sono trattate e apprese dal cervello umano come lingue ma come una specie di «rompicapo», perché non attivano i circuiti cerebrali predisposti dall’evoluzione per i compiti linguistici. Questo è il risultato innovativo degli esperimenti cui si fa riferimento e quello che porta nuovi dati di tipo neurobiologico all’ipotesi centrale formulata da Chomsky su base formale e matematica, cioè che le regole delle lingue umane non siano totalmente arbitrarie; se lo fossero, non ci sarebbe attivazione di circuiti diversi nel cervello. Sono anche d’accordo con Mazzeo nel ribadire che la scelta tra quali regole siano comuni alle lingue umane e inscritte nel patrimonio genetico della nostra specie sia un fatto, per quanto risulta oggi, completamente arbitrario anche se il richiamo a Saussure riguarderebbe l’associazione tra significanti e significati e non la sintassi che, come ribadisce De Mauro, non fa parte del sistema di regole. In modo più specifico, si può dire l’arbitrarietà della sintassi sta nel fatto che gli esseri umani parlano solo lingue le cui regole non si basano sulle sequenze lineari ma che sarebbe stato del tutto possibile anche il contrario. L’importante, nell’evoluzione della nostra specie, deve essere stato che qualche «setaccio irragionevole» abbia impedito ai bambini di trovarsi di fronte a una complessità incommensurabile che avrebbe di fatto reso inservibile il sistema di comunicazione basato sulla ricombinazione potenzialmente infinita di pochi elementi; e, ovviamente, i bambini non hanno accesso alla dimensione che porta gli adulti a risolvere «rompicapi» come quelli utilizzati negli esperimenti. Giustissimo dunque insistere sull’arbitrarietà della sintassi umana a patto che, una volta individuato il sistema di regole universale, qualunque esso sia, si capisca che questo si esprime come prodotto dei circuiti neuronali e non sia da questo completamente separabile. Per chi fosse interessato a una rassegna aggiornata di questa posizione di difesa dell’arbitrarietà della sintassi mi permetto di segnalare l’articolo Friederici, A. – Chomsky, N. – Berwick, R. – Moro, A. – Bulhuis, J. «Language, mind and Brain», Nature Human Behaviour, Vol. 1, 2017.)