Pietro Lingeri, Villa Silvestri, Portezza di Tremezzo (Como), 1929-’32

 

«Un tempio tripartito in Sale, che poste a quote diverse stabiliscono un percorso ascendente… preparando gradualmente il visitatore ad una sublimazione della materia e della luce». Le sale sono l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso della Commedia dantesca. «Immaginare e tradurre in pietra un organismo architettonico che… possa dare a chi percorra gli spazi interni la sensazione di isolamento contemplativo, di astrazione dal mondo esterno…». Il Danteum è uno dei progetti più affascinanti e astratti, al limite dell’esoterismo, dell’architettura moderna italiana. Proposto da Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni nel 1938, a Roma lungo la via dell’Impero e nel paesaggio archeologico dei fori, doveva essere una rievocazione del poema di Dante. Custodiva un percorso iniziatico, che per passaggi doveva condurre il visitatore dalla «selva oscura» in cui Dante s’era perso, alla rarefazione delle colonne in vetro di un Paradiso aperto verso il cielo. Acquarellati, sono i disegni più belli della mostra della Triennale di Milano su Pietro Lingeri (1894-1968), aperta sino al 21 novembre.
Viene a mente il libro-manifesto di Carlo Belli, Kn (Edizioni del Milione, 1935), quando afferma che «a un certo punto tutta l’arte diviene pretesto. (…) Il compito dell’artista moderno sarà quello di abolire ognuno di questi pretesti, per arrivare alla musica, alla pittura, alla scultura, alla danza e alla poesia». La Commedia di Dante è insieme testo e pretesto del progetto di Lingeri e di Terragni, dove l’allegoria rimane, ma perduta nelle sofisticazioni delle geometrie, delle proporzioni, degli sfalsamenti dei piani orizzontali, dei giochi della luce. È un’idea elaboratissima e irreale, che Terragni viene preparando nei primi suoi disegni e nella relazione. Il progetto, presentato nel novembre 1938 a Mussolini, incontrerà critiche e opposizioni di committenti e autorità. Sarà soprattutto Lingeri a cercare di trasformare l’idea in costruzione e a trovare compromessi, ma perdendo diversi dei particolari più sottili.
Lingeri e Terragni collaborano in numerosi progetti: i concorsi romani della fine degli anni trenta per le grandi opere di regime; le cinque case costruite poco prima a Milano; la nuova sede non realizzata dell’Accademia milanese di Brera. Uniti da amicizia, erano personalità profondamente diverse: Terragni forse la figura più alta e inquieta dell’architettura moderna italiana, sperimentante e discontinuo nella propria ricerca; Lingeri buon professionista concreto, chiuso nel cerchio del mestiere.
Il mondo professionale lombardo era cambiato dopo il periodo di fine Ottocento e di inizio secolo. Aveva avuto per un tempo una vita associativa e una rete di relazioni culturali e di pensiero ricca, dove architettura, letteratura, musica, politica, arti si incrociavano e vivevano in tensione. L’epoca tra le due guerre e quella degli anni successivi era stata più ripiegata e chiusa, ridotta nei mestieri, legata a istituti di insegnamento e di cultura impoveritisi nel tempo. Le figure professionali di architetti e ingegneri avevano, con eccezioni, perduto di apertura e ruolo.
Manuel Orazi, nel testo in catalogo, osserva che «Lingeri si è sempre tenuto distante dalle polemiche fra le due guerre… con una prudenza più unica che rara. I suoi testi sono infatti praticamente inesistenti… è praticamente assente dal dibattito pubblico e disciplinare dell’epoca…». Sono viste come qualità di concretezza, e sono i limiti del personaggio. Corre nel catalogo e nella mostra l’idea che l’autenticità del lavoro dell’architetto stia nell’esperienza del mestiere, e che l’architettura sia arte del fare, e non anche del pensiero e del mettere in figura. Lingeri, in un discorso commemorativo di Terragni (morto nel ’43), lo descriveva «agitato da una fantasia inesauribile». Il figlio di Pietro, Pier Carlo, ripeteva conversando che «il Terragni ci metteva la fantasia, il papà la tecnica». La fantasia era la concezione del progetto; separata stava la capacità di gestire e realizzare.
Lingeri era architetto corretto e onesto, dentro la tradizione del moderno, con alcune opere belle e altre frutto di un costume. Tra le migliori quelle giovanili legate alla tradizione e alla poetica del lago (il lago di Como), da cui Lingeri come Terragni proveniva. Tra le cinque case realizzate a Milano negli anni trenta con Terragni, è la Rustici quella che propone una vera invenzione tipologica e formale, con la maglia dei lunghi balconi sospesi a ponte, trasformati in diaframma trasparente che separa la strada dalla corte.
Un confronto utile, perché diretto e sul terreno, è quello a Como tra la casa del Fascio di Terragni (1934-’36)e, accostato sul retro e in asse, il palazzo dell’Unione fascista dei lavoratori dell’industria, di Lingeri e altri (1938-’43). Non c’è consequenzialità tra un’opera e l’altra. La Casa del Fascio una scatola magica, costruita sul rigore della griglia e su un sistema complicato di scavi di volumi e di diaframmi trasparenti. Non porta messaggi, perché è gioco incantato, abilissimo e sospeso. L’altro palazzo è un edificio rigoroso nella sua convenzionalità e nella ripetizione dei partiti.
La mostra espone con ordine i disegni, ed è il suo pregio, ma è piena, soprattutto nel catalogo, di ambiguità e squilibri. Dimentica e non discute il rapporto con Terragni; non coglie le differenze; rimane stretta nel problema dell’autorialità e della rivendicazione di un primato. Per altro verso, dimentica la città. Gli edifici che Lingeri costruisce, con Terragni e senza, nella prima periferia e nel suburbio milanese, sono l’irruzione improvvisa dentro un tessuto ancora popolare di un’edilizia altra per la dimensione e la tipologia e per il bianco del colore. È un processo di spossessamento, un mutamento improvviso di forme e di poteri. Così gli edifici nel centro appartengono a un modo sommario e duro di ricostruzione, di cui de Finetti e Pagano avevano avvertito i limiti e i caratteri deformi (Pagano aveva scritto di «storture, tagli e squarci di bisturi tirati giù alla orba»). C’è in architettura un problema di linguaggio, e un altro di consapevolezza della storia urbana.
Nel linguaggio, Lingeri resiste dopo la guerra e continua a ricorrere ai modi del moderno, anche di fronte a una crisi generale di fedi e di valori. Ma c’è un tema, quello della casa popolare, in cui anche la sua identificazione vacilla e in cui risente della temperie neorealista. È un’inclinazione che riguarda una parte ampia del razionalismo italiano. Per fare i due esempi più vistosi, Lingeri e Ezio Cerutti sono coordinatori del progetto di due quartieri Ina-casa, quello di Monte Olimpino a Como e quello di Vialba a Milano. In entrambi si affaccia, dubbioso, il richiamo ai caratteri di un insediamento antico e di una cultura popolare. Monte Olimpino assume le vesti del villaggio. Vialba obbedisce alla mitologia di una studiata varietà e di un’irregolarità di impianto. I tetti perdono di purezza e prendono le falde, le finestre le persiane.
V’è un costume diffuso, che moltiplica le esposizioni come un rosario, portando alla luce personalità trascurate e non, ma senza il senso della coralità dell’architettura e fuori di una critica attiva di respiro. Rogers parlava della necessità di «identificare il critico con l’espositore». Non si dovrebbero proporre mostre che non siano orientate e tendenziose, capaci di riaprire il dibattito. Perché è un tempo in cui l’architettura s’è smarrita e deve ripartire da una meditazione sul presente e sul passato.