Per anni abbiamo sperato in un po’ di inflazione, ma, nonostante la politica ultra-espansiva della Bce, abbiamo avuto solo prezzi stagnanti e deflazione. Morale: un aumento della base monetaria non è di per sé sufficiente per un aumento dei prezzi, anche in presenza di un’offerta immutata di beni e servizi e di un immutato volume degli scambi commerciali. Insomma, la storia e l’evidenza hanno di nuovo sconfitto Irving Fisher (1867-1947) e la sua «Teoria quantitativa della moneta», fatta propria, mutatis mutandis, da tutti gli economisti neoliberisti, Draghi compreso.

Proprio Draghi, infatti, sarà, nella crisi del decennio scorso, uno dei principali protagonisti della politica economica e finanziaria europea basata sull’improbabile binomio austerità/politica monetaria espansiva. Una politica che servì a stabilizzare il settore finanziario, ma non produsse alcun effetto dal lato della domanda, dei consumi, dell’occupazione. I soldi del quantitative easing furono molti utili alle banche per smaltire i titoli di Stato che avevano in pancia (ne guadagnò, invero, anche il servizio del debito), ma di essi all’economia reale arrivò ben poco. Fallimento? Se ci riferiamo agli obiettivi dichiarati di Bruxelles e Francoforte, ovvero una ripresa sostanziosa dell’economia e un aumento dell’inflazione fino al fatidico 2% fissato nello statuto della Bce, certamente sì. Ma, come è noto, nessun economista è finito mai sul banco degli imputati.

Poi è arrivata la pandemia. Draghi è stato chiamato a «salvare l’Italia», il programma d’acquisti della Bce è stato prorogato e rafforzato, l’Europa ha sospeso il fiscal compact e ha varato il Next Generation Eu, emettendo obbligazioni comuni. Un definitivo cambiamento di rotta da parte di Bruxelles? Lo vedremo nei prossimi mesi, quando si porrà il problema del ritorno (o meno) dei vincoli del patto di bilancio. Per adesso possiamo solo prendere atto che l’espansione dei bilanci nazionali e l’avvio dei «piani di resilienza» non si sono accompagnati ad una revisione degli schemi neoliberisti che sono a fondamento dell’attuale modello di costruzione europea. I soldi ci sono, ma per spenderli bisogna garantire più privato e più mercato, concorrenza e flessibilità lavorativa.

Nel frattempo, l’inflazione è arrivata davvero. E non è solo un caso europeo. Ad ottobre, +5,2% nell’area Ocse, +4,1% nella zona euro. In Italia, secondo le stime preliminari dell’Istat, nel mese di novembre l’indice dei prezzi (Nic), al lordo dei tabacchi, ha fatto registrare un balzo dello 0,7% su base mensile e del 3,8% su base annua. Sono gli effetti ritardati della politica accomodante delle banche centrali? Per caso sono aumentati i salari dei lavoratori? Niente di tutto questo. Solo la conseguenza dei «colli di bottiglia» che si sono venuti a creare nelle catene globali di approvvigionamento di materie prime e semilavorati a causa della pandemia. Con inevitabili ricadute anche sui prezzi dei generi alimentari. La ragione per cui molti analisti parlano di «inflazione transitoria», oltre che di «inflazione da costi».

Solo chiusure e pandemia, dunque? No. Al tempo del capitalismo finanziario la macroeconomia non è intellegibile senza passare per i mercati finanziari. Insomma, la pandemia c’entra, ma c’entra anche la speculazione finanziaria. D’altro canto, grano e petrolio sono stati sempre «sottostanti» privilegiati nel gioco speculativo dei contratti «derivati», o no? Il rischio, tuttavia, è che di questa inflazione saranno solo i ceti popolari a pagarne dazio. E’ semplice: con lo stesso salario si comprano meno merci di qualche mese fa. Eppure, c’è già chi mette le mani avanti. Bisogna scongiurare una «spirale prezzi-salari». E di piena occupazione manco a parlarne (dopo sessant’anni la «Curva di Philips» incombe ancora).

Ma in Italia i salari sono pressoché fermi da vent’anni a questa parte: tra il 2000 e il 2020 l’aumento medio non ha superato i 900 euro. Quindi? Di nuovo è un problema di rapporti di forza. Di distribuzione del reddito tra salari, profitti e rendita finanziaria. Più in generale è il problema di come si vuole uscire da questa crisi. L’area della sofferenza sociale si è molto dilatata nell’ultimo anno. Non c’è solo il lavoro povero di chi un lavoro stabile ce l’ha. Troppo esteso è anche il bacino del lavoro precario, a pezzettini, iper-flessibile, e di chi un lavoro non ce l’ha proprio. Per questo, c’è da scongiurare che l’inflazione diventi il pretesto per una nuova stagione di attacco al welfare ed ai diritti dei lavoratori.