Parlargli al telefono non è facile. Ma la ragione è evidente. Il professore Marcello Tavio è direttore di Malattie infettive alle ‘Torrette’, gli Ospedali Riuniti di Ancona, sul fronte marchigiano del virus. Ed è presidente della Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali, la Simit, la società degli infettivologi.

Oggi sappiamo qualcosa in più del Covid19?

Sull’andamento epidemico, la novità riguarda Codogno, dove risulta non ci siano più casi. Il problema è capire se è dovuto al fatto che Codogno è stata messa sotto chiave o se è l’effetto di una diagnosi aggressiva di tutti i casi sintomatici di quell’area. In parole povere, se in un’area determinata riesco a sottoporre a tampone tutte le persone sintomatiche e le isolo a domicilio in condizioni di sicurezza, o le porto in ospedale, è come se avessi ‘disinfettato’ l’area. Questa è l’ipotesi che ritengo più ragionevole. Ed è il motivo per cui noi della Simit ci battiamo perché il tampone sia esteso in tutta Italia, a tutti i casi sintomatici. Perché ormai in Italia il criterio epidemiologico non conta più niente. Soprattutto ora che Oms ha dichiarato lo stato di pandemia.

In Italia ci sono abbastanza punti di accesso ai tamponi?

Assolutamente no. È questo il punto. Noi lamentiamo la scarsità sia di laboratori dove poter effettuare il tampone con le necessarie garanzie di qualità, sia la scarsità di tamponi disponibili nei singoli punti di accesso. Abbiamo una domanda molto superiore all’offerta. Riteniamo che le istituzioni si debbano attivare per aumentare enormemente l’offerta, soprattutto adesso che siamo passati da una situazione di epidemia a una di pandemia, in cui resta di grande importanza sapere se una persona è affetta da coronavirus oppure no.

Qual è il suo giudizio sulle misure messe in atto dal governo?

Le misure di emergenza intraprese in Italia agiscono prevalentemente su quello che potremmo definire il fronte nascosto dell’epidemia, e sono finalizzate a ridurre drasticamente i contatti fra le persone, che siano o non siano infette. L’efficacia si può valutare solo sul medio periodo, diciamo qualche settimana. Ma c’è un fronte dell’epidemia che avanza in piena luce ed è quello sostenuto dalle persone malate che contagiano le persone sane; in quel caso sapere se una persona ammalata è affetta da coronavirus è fondamentale sia per la persona che per la comunità civile. Si tratta in questo caso di adottare misure specifiche che mettano sotto controllo il fronte reale e visibile dell’epidemia, quello che cammina sulle gambe delle persone, attraverso i contatti diretti. In questo caso i risultati si vedono nell’arco di giorni, in base all’ampiezza della popolazione malata screenata per coronavirus.

Su questo si deve puntare di più?

Noi della Simit, clinici, medici, infettivologi, facciamo appello alle istituzioni perché vengano moltiplicati i siti a disposizione di tutti per fare il test. Non chiediamo di fare il test a tutti, ma solo a chi presenta una sintomatologia di affezione respiratoria. In caso positivo, se non c’è evidenza di polmonite o di difficoltà respiratorie o di altre ‘comorbidità’, come spesso accade negli anziani, queste persone restano isolate nel loro domicilio, con un kit per proteggere i loro cari. Si avverte il medico di medicina generale e i servizi territoriali. È un modo per fronteggiare l’epidemia chiaramente visibile, non quella nascosta. Le due strategie, quella basata sulla limitazione delle libertà di movimento e quella basata sulla diagnosi precoce, possono essere combinate, e dare risultati migliori in meno tempo.

Ma l’opinione corrente, quella scientifica intendo, è che il ‘Modello Wuhang’, quello delle zone chiuse, abbia sconfitto il virus.

Io sono scettico verso le misure unilaterali e incomplete. Faccio osservare alcune cose che sono sotto gli occhi di tutti. Prima. L’area di Hubei, dove c’è Wuhan, ha 60 milioni di persone, ma intorno ha una nazione di un miliardo e 400 milioni di persone che ha sopperito ai fabbisogni dell’area chiusa. Seconda: i focolai fuori da quell’area sono stati combattuti con successo in un modo diverso. Avanzo l’ipotesi che abbiano fatto una ricerca attiva e capillare dei casi sintomatici e abbiano messo sotto chiave solo quelli. La cosa sorprendente infatti è proprio che non si siano scatenati altri focolai, visto che quando hanno chiuso Wuhan molte persone infette erano già uscite. In Corea hanno fatto i test per strada, una misura specifica che tocca il nervo dell’epidemia. Noi abbiamo puntato su altre misure, più aspecifiche, ma siamo in tempo per completarle.

È eccessiva la definizione degli ospedali come ‘detonatori’ dell’epidemia?

L’immagine è forte ma va tenuta presente.

Negli scorsi giorni è stato lanciato un drammatico allarme dagli anestesisti e rianimatori: il rischio di dover curare solo chi ha ragionevole possibilità di farcela.

Posso dire che ho qualche dubbio che si sia arrivati a questa scelta di necessità. Conosco bene quel mondo, e non ci credo.

A proposito di sanità pubblica e privata, il virus ci lascerà un’indicazione di lavoro per il futuro?

Non c’è alcun dubbio, un’indicazione forte e chiara. La sanità pubblica non si tocca, se non con gravi rischi per la popolazione e, come si vede, anche per l’economia. Abbiamo uno dei migliori sistemi sanitario al mondo proprio per le sue caratteristiche di universalità e gratuità. La grande lezione che ci dà già ora il coronavirus è che questa sanità si deve rinforzare. Si vada a privatizzare qualcos’altro, non la salute.