Trent’anni fa, fuori dal suo pionieristico ambulatorio all’ospedale San Gallicano di Roma, a Trastevere, affiggeva indicazioni in tutte le lingue per accogliere persone malate di tutte le parti del mondo. Spesso c’era una ‘manina’ che le staccava. Ma lui non ha mai perso la fiducia nel prossimo. Oggi Aldo Morrone è infettivologo di fama mondiale e direttore scientifico dell’Istituto San Gallicano. «Le persone dimostrano di essere più solidali di quello immaginavamo. Da questa emergenza usciremo solo se metteremo insieme scienza e solidarietà. Nessuno guarisce da solo. Una visione oggi chiara grazie al nostro servizio sanitario nazionale, improntato sulla salute come benessere di un’intera comunità. In questo frangente l’art.32 della Costituzione è una stella polare. Soprattutto per le cure agli indigenti».

Dottore Morrone, il picco del virus in Italia non è ancora arrivato?

Molti studi così ci dicono, anche se le epidemie variano andamento a seconda delle condizioni.

Autorevoli suoi colleghi chiedono l’incremento dell’uso dei tamponi. Il Veneto annuncia che seguirà il ’modello Corea’.

Sono sempre stato favorevole ad aumentare il numero dei tamponi. Dobbiamo individuare le persone positive al virus nella fase asintomatica, in modo tale che vadano subito in quarantena ed evitino altri contagi. In più, se sviluppano sintomi, sarebbero sintomi da fase iniziale. Facendo il tampone solo a chi ha sintomi manifesti rischiamo di prendere in cura persone già in fase avanzata della malattia e di aver bisogno di letti in terapia intensiva o subintensiva. La mia ipotesi dunque è: tampone a tutti i soggetti, anche asintomatici, che hanno avuto rapporti con soggetti positivi. Il modello Corea del Sud ha dei vantaggi: se potessimo geolocalizzare quelli che dal Nord sono tornati al Sud e invitarli a fare il tampone, sarebbe meglio.

La mancanza di mascherine è un disastro: non si trovano. Il mercato non si autoregola.

Nelle situazioni di epidemia spesso avanza l’idea che la salute sia una merce su cui fare speculazioni. Sono favorevole a che le mascherine le portino le persone malate o a rischio di ammalarsi, e gli operatori. Il resto può essere un sostegno psicologico. Ma è inutile.

Tutto il paese oggi inneggia alla sanità pubblica. Che ruolo ha il privato in questa emergenza?

Il privato serio c’è, in queste ore offre servizi, tecnologia e professionisti. Questa è una sfida che o superiamo tutti insieme o non la superiamo. Avremo tempo di rifletterci meglio. Mi meravigliano gli encomi a medici e infermieri della sanità pubblica, ma anche ai biologi, chimici, amministrativi. Oggi sono tutti angeli. Bene. Ma fino a poco tempo fa era in corso una campagna contro il sistema pubblico, a cominciare da chi diceva che il medico di famiglia non serviva.

Il contagio del personale sanitario sta diventando un’emergenza nell’emergenza?

I miei colleghi fanno un lavoro straordinario, il rischio di contagiarsi è alto e dovuto anche alla mancata capacità di affrontare il tema con gli indumenti di protezione individuale. Chi ora si chiede se ci si infetti fuori dall’orario di servizio non sa che significa avere davanti persone e non numeri. L’intervento terapeutico non è solo indagine di laboratorio e somministrazione della terapia ma anche stare vicino a una persona malata.

Lei ha una lunghissima esperienza di sanità su fasce marginali e di disagio. Come arriva il virus su queste fasce?

Ho curato migliaia di pazienti con la lebbra o con la leishmaniosi. Non perché sono un missionario ma perché studio queste malattie. Se vogliamo garantire la salute di un paese dobbiamo partire dalle fasce più marginali perché sono quelle più a rischio. Ripeto: non è solo una questione di solidarietà, è una scelta scientifica, un’idea clinica, di epidemiologia. Un paese dove le persone sono malate è destinato al sottosviluppo economico.

Dopo le guerre nucleari, lo spettro del futuro è la pandemia?

Sono cresciuto con il rischio della guerra nucleare, adesso l’umanità non riesce a rendersi conto che l’attenzione al pianeta deve essere la stessa che noi medici abbiamo per il corpo umano. I virus del resto sono presenti da milioni di anni sul nostro pianeta.

Possiamo attrezzarci?

Il famoso «salto di specie» non è determinato da un rafforzamento del virus o un indebolimento delle difese immunitarie ma dalla devastazione del nostro habitat: alterazioni climatiche, aumento della popolazione, distruzione delle condizioni naturali. Lo abbiamo visto con l’Hiv, con la Sars e adesso. Dobbiamo pensare che la salute è anche quella dell’ambiente. In questo caso potrebbe essere favorito dal fatto che un miliardo e mezzo di persone è costretto a vivere in uno spazio troppo ristretto a contatto con gli allevamenti. Prevenzione significa molte cose: pensiamo all’Hpv (il Papilloma virus, ndr). Abbiamo scoperto che è determinante nel tumore della cervice uterina. Una campagna contro questo virus eviterebbe gran parte di questi tumori.

Lei fa professione di fiducia verso la solidarietà fra cittadini. Oggi però in Italia non c’è un grande interesse per quello che succede ai migranti in Grecia, o ai confini della Turchia. Ne usciremo più rinchiusi nei nostri confini?

Il rischio c’è. Anni fa con l’attuale direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, il primo africano alla guida dell’Oms, eritreo anzi “tigrino”, ci dicevamo che in questi casi devono intervenire le Nazioni unite. Nel mondo sono in corso almeno tre guerre violente: in Libia, Yemen e Siria. Potrebbero essere devastanti, come lo fu per la spagnola. Se ci fosse una vera volontà di contrasto dell’epidemia bisognerebbe partire dall’immediato stop delle guerre, immediato riconoscimento del diritto alla mobilità dei migranti e dei rifugiati, in sicurezza. Sarebbe una concreta forma di contrasto alla pandemia. Non è una fissazione pacifista ma una necessità scientifica.