Comparso per la prima volta nel 2011 e poi ancora in una nuova edizione nel 2013, ritorna da Il Saggiatore un libro necessario per comprendere al meglio la letteratura italiana contemporanea degli anni duemila: si tratta di Città distrutte di Davide Orecchio (Il Saggiatore, pp. 266, euro 20). Salutato come un felice esordio Città distrutta si impone all’attenzione della critica che lo premia sia con il Supermondello sia con il premio Volponi per la sua capacità di appartenere alla Storia ricucendo quel rapporto con il Novecento italiano da molti autori odierni oggi spesso rifiutato.

Sia chiaro: Davide Orecchio non si pone come il figlio minore di una storia letteraria che ha avuto i suoi riferimenti migliori in un secondo Novecento che va da Pasolini a Calvino, da Morante a Ginzburg e che ancora fatica a rielaborarli vivendoli come un ingombro ingestibile. Orecchio fa un passo di lato e se coglie la lezione che obbliga il narratore impegnato a stare dentro alla Storia, come ricorda nella sua appassionata postfazione Goffredo Fofi, dall’altro trova il modo di tradire la causa, di rendersi infedele, come confessa il sottotitolo del libro, alle biografie. «Sei biografie infedeli» è, infatti, il sottotitolo che presenta e lega le sei storie documentate e inventate al tempo stesso, un lavoro sul bordo, sul confine della verosimiglianza che sposta l’interesse di Città distrutte attorno a una dicotomia che vede confrontarsi infedeltà e verità allo stesso tempo superando così l’equivoco specioso di un biografico magari interpretabile come celebrativo o peggio ancora liquidatorio. Gli elementi di invenzione e quelli di realtà sono esplicitati e solo successivamente mischiati, o meglio mischiati più dalla storia che dalla stessa azione narrativa dell’autore che si pone in una chiave principalmente testimoniale osservando come farebbe un chimico l’effetto, la reazione al mescolarsi degli elementi.

Le sei biografie raccontate o meglio le sei storie per l’appunto prendono spunto da elementi sostanziali del Novecento in particolare l’ideologia e la politica, elementi pubblici ma intensamente privati che Davide Orecchio declina con una scrittura attenta, precisa, quasi dando forma dallo spazio ristretto di sole sei vite a una vera e propria etnografia di un secolo. L’autore non giudica, ma in alcuni casi afferma. Distingue, fa ordine e nel farlo accoglie il disordine e le contraddizioni come i conflitti che vi prendono spazio restituendo una vitalità mai obbligata all’inquadratura del ritratto, ma invece a tratti sfuocata, o meglio bruciante come suggerisce la bella copertina con l’immagine di Seug-Hwan Oh.

Un libro fondamentale sia per la misura della sua scrittura sia per la precisione di un’ambizione reale, Città distrutte cresce negli anni rivelando le sue qualità di testimonianza viva, ma anche dando una lezione chiara su quale può essere ancora il ruolo della letteratura nella confusa e spesso smemorata società italiana.