«In un sistema di narrazioni e rappresentazioni edificato a somiglianza di persone normativamente abili, come ci si accorge di ciò che manca? Come si può far luce su una perenne assenza, evitando di tradire la voce delle soggettività che la incarnano?». Sono queste alcune delle domande che Dalila D’amico, studiosa nel campo delle arti visive e performative, si è posta nel libro Lost in traslation – La disabilità in scena, recentemente pubblicato da Bulzoni. Un’indagine teorica e storica allo stesso tempo, che ricostruisce il rapporto tra persone con disabilità e mondo del teatro da più punti di vista: da quello della critica a quello delle istituzioni, passando per la voce degli artisti coinvolti che sta finalmente emergendo. La ricerca è nata infatti in stretto contatto con l’associazione Al. Di. Qua. Artists, artefice di un manifesto attraverso il quale i professionisti della scena con disabilitò hanno preso la parola, mettendo in evidenza le esperienze virtuose che nel nostro Paese hanno trovato uno spazio accanto all’immenso lavoro che c’è ancora da fare per realizzare l’inclusività. Abbiamo intervistato D’Amico per approfondire gli esiti della sua ricerca.

Il titolo del libro cita un noto film di Sofia Coppola, perché hai scelto di chiamarlo proprio «Lost in traslation»?

Mi interessava il significato letterale della frase ovvero una mancanza nella traduzione, in questo caso delle pratiche che riguardano la disabilità in scena. Coloro che in Italia hanno scritto sull’argomento lo hanno sempre trattato dal punto di vista del teatro sociale o della teatroterapia, come un mezzo per lenire delle problematiche o per intrattenere dei soggetti, tralasciando che il teatro possa essere un percorso professionalizzante.

Nell’introduzione discuti la questione per cui, non essendo tu stessa portatrice di una disabilità, c’era il rischio di un’appropriazione.

È stato un grande problema da sciogliere, temevo di fare una speculazione teorica su una situazione che non esperisco in prima persona. È anche vero però che la disabilità è una condizione dinamica che riguarda tutti, con grande probabilità la esperiremo prima o poi noi stessi o qualcuno che ci sta accanto.

Un capitolo l’hai intitolato «L’accessibilità come principio estetico-politico», spiegheresti meglio questo concetto?

Molte comunità sono tagliate fuori dall’offerta culturale e per i professionisti spesso non è garantita neppure l’accessibilità fisica agli spazi: è comune che le platee siano accessibili ma poi non lo sono i camerini, ad esempio. Alcuni artisti hanno indagato questo principio rendendolo un elemento della propria poetica, tra gli altri Giuseppe Comuniello e Camilla Guarino si sono interrogati su come tradurre uno spettacolo di danza per una persona cieca e lo hanno fatto non seguendo i protocolli audiodescrittivi, che spesso uccidono l’immaginazione, ma piuttosto dando vita a qualcosa di nuovo e mettendo in evidenza che ogni traduzione non è mai fedele, secondo un principio che appartiene anche a questo libro.

Il tuo lavoro contiene anche un’indagine storica, come hai affrontato questo aspetto?

Sono partita dall’Ottocento perché è il secolo in cui la disabilità viene per la prima volta affrontata come una patologia medica, mentre prima era compresa in una dimensione legata all’ignoto e al magico. Nello stesso periodo fioriscono i freak show con la spettacolarizzazione di chiunque non corrispondesse ad un’immagine stereotipata. La situazione chiaramente è peggiorata con le dittature del primo novecento, durante le quali le persone con disabilità diventano indegne di essere viste. Negli anni sessanta il teatro ha cercato di rinnovare i propri linguaggi e gli artisti con disabilità sono tornati in scena, ma praticamente mai da autrici o autori. Questo è avvenuto solo di recente e ancora senza la possibilità di accedere alle scuole di alta formazione, dovendo limitarsi così alla frequentazione dei laboratori di teatro sociale, un punto importante su cui intervenire.