Scendendo alla bella stazione dell’Hackerscher Markt, bastano pochi passi per raggiungere il centro culturale e artistico Hackesche Höfe. Il cinema si trova al terzo piano. È qui, in un luogo molto distante nell’estetica e nello spirito dei multiplex di Potsdamer platz, che un gruppo di cinefili tedeschi ha voluto, tre anni fa, creare una Woche der Kritik sul modello della Settimana della critica di Cannes. Per una settimana, sempre con inizio alle 20, la Woche propone una serata a tema e un dibattito (con critici, registi, artisti). La Woche scommette sul fatto che a sinistra della Berlinale e delle sue pur diverse selezioni, c’è spazio per un programma radicale e per un modo diverso di presentare i film.

Una delle più belle serate, sia per la qualità del film che del dibattito, è stata quella del 15 febbraio con la proiezione di Let the Summer Never Come Again – film germano-georgiano di Alexandre Koberidze. Un’opera prima, immodesta e titanica, cervellotica ma anche sensuale, nella quale si entra subito a capofitto e si esce solo 200 minuti dopo.

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Siamo a Tbilissi, in Georgia, in un tempo indefinito, teso tra passato prossimo e futuro anteriore. Un «giovane» salta da un treno all’altro. Percorre la città. Incontra un poliziotto e tra i due nasce una storia d’amore. A parte un breve intermezzo in alta definizione, le tre ore e venti minuti che compongono il film sono girate con la videocamera di un telefono cellulare di vecchia generazione. La pixellizzazione dell’immagine e il formato quattro terzi dell’inquadratura producono insieme un effetto contrario alle attese: l’impressione è quella di un’abbondanza di dettagli, di una composizione maestosa, di colori lucenti e pieni di vita. Le prime inquadrature sembrano guidate da un puro appetito: la possibilità di esaltare la città e le sue attrazioni. Siamo vicini alle «vues Lumière», eppure lontani da un cinema contemplativo.

Da subito, un filo narrativo, semplice ma solido, si delinea. Nella prima parte, lo «young man» è in città alla ricerca di un lavoro come ballerino. In questa sua ricerca incontrerà, seconda parte, un poliziotto. Infine, terzo movimento, trovato un impiego, il nostro eroe si separerà dal suo amante. C’è un lato ironico in questa accumulazione di opposti. Come se non bastasse, anche queste opposizioni sono a loro volta negate. Un intermezzo in alta definizione, ripetuto tre volte, contribuisce a scandire la sensazione di un ciclo.

La voce off parla, alla prima persona, di una sensazione olfattiva legata alla guerra. È il giorno dell’inizio del conflitto, c’è un’interruzione di corrente. Il burro nel frigo si scioglie al calore dell’estate. Il narratore associa l’odore del burro fuso all’inizio del conflitto. Questa corta sequenza dai toni proustiani rima con il titolo del film, e dà un senso alla sua implicita preghiera: lascia che l’estate (vale a dire la guerra) non torni di nuovo. Durante il dibattito l’autore si è fermato su quest’implorazione paradossale, altro esempio di inversione: «lascia che non», ovvero non intervenire per intervenire. Da essa emerge, accanto all’ironia, un lato tragico del film. La guerra, come l’estate, è inevitabile.

 

E se non è la guerra stessa a tornare sarà la sensazione che le è oramai associata e che ci rimanda al passato, all’irrequieta certezza di un futuro inaggirabile. Tutto il film sgorga da questo sentimento di inevitabilità, che il regista trasmette in particolare attraverso il contrappunto. Le musiche arrivano all’improvviso, imponendo un tono di colore sempre sorprendente: ora epico, ora intimo, ora picaresco a delle immagini che sprofondano nell’abisso delle note. Il meno che si possa dire è che Let the Summer Never Come Again è un film titanico. Non solo per la sua curiosa maestosità, ma anche perché è un film che cerca di sfidare il limite del cinema.  In questo senso Let the Summer è una sorta di manifesto programmatico del tipo di radicalità alla quale i curatori di questa nuova Woche der Kritik vogliono dare voce.