Il buio. Ne resta come un alone anche dopo che lo spettacolo è finito e le sue immagini ancora si sovrappongono nei baluginii della memoria. Tutto ha inizio e fine lì, in quel buio compatto che rende invisibili i confini della scena dove si rappresentano Le sorelle Macaluso di Emma Dante. Da lì esce la donna che si abbandona a una danza silenziosa. E il gruppo che si materializza sul fondo e prende a marciare avanti e indietro, mentre lei continua a ballare da sola. Hanno abiti scuri, tutti uguali, pantaloni e camicia, come fosse una divisa; sembrano alludere a un fatto luttuoso e tuttavia privo di pathos nella ritualità concentrata di quel moto pendolare. Quando scoppia una musica allegra le sette sorelle Macaluso si fermano a filo del proscenio, schierate di fronte alla sala del teatro Mercadante (lo spettacolo prodotto dallo Stabile di Napoli, in scena ancora oggi alle 19 e domani alle 18 a Napoli, sarà dal 29 gennaio al 9 febbraio al Palladium di Roma e poi in giro fino al termine della stagione). E allora sono risate che è impossibile trattenere e scherzi di mani malandrine e urla e versacci, mentre da sotto quegli abiti scuri, di cui si spogliano con una sorta di infantile frenesia, spuntano vestitini leggeri e assai colorati che rivelando la diversità dei corpi ne ristabiliscono anche le individualità.

Per un momento il loro baccagliare si trasforma in una battaglia da teatro dei pupi, nello sferragliare delle spade e gli scudi trovati lì davanti a sé. È gioco e teatro, quest’altra immagine uscita da un qualche angolo della memoria, e tuttavia le due dimensioni del piano su cui le provvisorie marionette sono costrette a muoversi sembrano indicare anche un limite che non è possibile oltrepassare. Una linea d’ombra che separa chi sta di qua da quel luogo di fantasmi che sempre è la scena. Giacché un poco alla volta si comprende che lì, su quel palcoscenico sconfinato e tuttavia ristretto a un fascio di luce dall’alto, i morti e i vivi possono convivere e vai a sapere in realtà chi è vivo e chi è morto (credete che io sia viva? chiedeva già una di quegli scombinati comprimari della compagna del mago Cotrone nei Giganti pirandelliani). Certo è morto da un lungo tempo e continua a morire e a rialzarsi il ragazzetto con la maglia azzurra numero dieci che sogna di essere Maradona, il pibe de oro di un altro tempo naturalmente.

Loro intanto, le sorelle, hanno preso a ricordare un lontano episodio dell’infanzia. La prima gita al mare con la corriera. La pasta al forno preparata la sera prima, con una melanzana sola ma tagliata fina fina per farla bastare. I giochi nell’acqua. Ma c’è poco da fidarsi di quel clima festoso. È maschera malinconica come per i Ballarini della Trilogia degli occhiali o le luminarie da sagra di paese di Carnezzeria. La cerimonia allestita da Emma Dante vira in fretta verso un suo nucleo doloroso, una sorta di peccato originale da cui non si vien fuori. C’è di mezzo la morte per annegamento della più piccola, evocata senza bisogno di parole, nella ripetizione angosciante del gesto che la condanna. L’altra che ne rifiuta la responsabilità e accusa le sorelle e riversa gli insulti più feroci sul padre che poi la mise in un istituto, a crescere sola come una cana, lei che ora rifiuta di rimettere l’abito del lutto e anche nella lingua più ostica che parla sembra marcare una sua lontananza o diversità dalle altre.

L’esperienza del male ha una traccia persistente nelle creazioni dell’artista palermitana, nella trama di quelle storie familiari sempre un po’ marginali, fra le cui pieghe si celano spesso violenze date e subite. Basta un niente perché rispuntino fuori i rancori repressi, le vecchie ferite che si portano dentro mai sanate, però come un marchio collettivo piuttosto che il carattere di un singolo personaggio, che è sempre corale e imprescindibile dal suo contesto. Piuttosto la maturità, anche espressiva, ha come addolcito la scrittura scenica di Emma Dante che qui si avvicina alle sue prime sorprendenti prove. E conta anche il prevalere di un universo femminile, probabilmente, in questo sentimento di maggiore comprensione verso il mondo che racconta. Di queste sette sorelle, della loro lingua e delle loro vite antiche un po’ si finisce per innamorarsi.

Ed eccolo allora il padre che torna anche lui in mezzo a loro che sono ormai diventate più grandi di lui. Che infatti ha conservato l’innocente desiderio di apparire sempre giovane, un picciuttieddu, col pettinìno in tasca e la piroetta pronta. Eccolo a tu per tu con quella figlia che lo maledice, forse è il suo modo di amarlo – ma chi ’nni sai tu? Il tempo per lamentarsi lui non l’ha mai avuto. E sono ancora ricordi lontani, condannati alla ripetizione, come le parole che si scambiano nei loro ruoli ormai fissi o la canzone siciliana che gli piaceva, con quella striscia di sangue, quello strazio dei corpi e dei sentimenti. Cantala ancora. Così come uscirà fuori anche la madre, da quel buio feroce, a consolare quel suo uomo bambino incapace di vivere senza di lei, come il pesce spada della canzone di Mimmo Modugno, e buttarsi fra le sue braccia e ballare insieme, avvinghiati l’uno all’altra, così come si trovano, entrambi vestiti soltanto di una sottoveste, come se gli fosse impossibile sottrarsi anche in quell’istante a uno sguardo derisorio.

Ma qui soccorre la lezione di Tadeusz Kantor. È un magazzino polveroso, la memoria. Abitato da personaggi non sempre rispettabili che non cessano di buttarci in faccia i loro sogni e le loro passioni. Per tenere a bada la commozione bisogna che si spinga fino a lambire il patetico.

Danzare era il sogno di Maria. Quando spiava gli esercizi dalle finestre della scuola di ballo sotto casa. Il tempo scenico ha compiuto il suo giro. Ora che è tornata al centro della scena e di quel funebre corteo, ora la più grande delle sorelle Macaluso può finalmente spogliarsi del vestito che ha portato per tutta la vita e nuda com’è lasciarsi andare al ballo e indossare infine il tutù che le porgono per l’ultimo giro. Poi è di nuovo il buio.