Il 2 marzo 1944, giorno del suo 25esimo compleanno, Jennifer Jones si aggiudica l’Oscar come miglior attrice per Bernadette di Henry King, spodestando rivali ben più rodate come Joan Fontaine, Ingrid Bergman e Greer Garson.

Quella sera sono presenti tutte le stelle del momento, da Humphrey Bogart a Bette Davis, da Lana Turner a Rosalind Russell che, col suo fare scanzonato, commenta sarcasticamente il brillocco di Jane Wyman regalatole da Ronald Reagan. Jennifer è un pesce fuor d’acqua, si sente come Cenerentola al Gran ballo: tutti gli sguardi sono per lei, per il suo primo film importante prodotto da una major, per i suoi grandi occhi grigio-verdi, per la sua classe innata – dote rara nel tripudio barocco di Hollywood.

Nata a Tulsa (Oklahoma) nel 1919 come Philys Isley, figlia degli attori teatrali Phil Isley e Flora Mae «Dolly» Suber, anche proprietari di sale cinematografiche, luoghi in cui la piccola si avvicina a quell’arte magica composta di celluloide. Già a 12 anni Philys è una vorace spettatrice, i suoi miti non sono bellezze patinate à la Joan Crawford, ma attrici «vere» come Janet Gaynor o Sylvia Sidney. Studentessa mediocre (ammesso da lei stessa), il suo unico pensiero è quello della recitazione, tanto che nel 1937 abbandona la «terra lunare» degli Stati centrali per sbarcare all’American Academy of Dramatic Arts di New York.

Qui incontra Robert Walker, suo primo marito dal quale avrà due figli, Robert Jr. e Michael. Due anni dopo, ancora col nome di Philys Isley, viene scritturata per un paio di produzioni scarne della Republic: Nuove frontiere con John Wayne e l’episodico Dick Tracy’s G-Men diviso in quindici blocchi. Nel 1941, fallito un ingaggio con Paramount, Phylis tenta un provino per lo studio del potente David O. Selznick: va male, ma il produttore di Via col vento coglie qualcosa di magico in lei.

La mette sotto contratto settennale, le cambia nome optando per il più sciccoso Jennifer Jones («Uno dei più bei nomi del cinema» come disse Jack Lemmon agli Oscar del 1958) e iniziano una relazione – ufficializzata nel 1949, dalla quale avranno Mary Jennifer – che durerà fino alla morte di lui nel 1965. Entrambi già sposati e con figli (Selznick era legato a Irene Mayer figlia di Louis, capo dei capi della MGM) la clandestinità dello «scandalo» resse fino alla vittoria di lei con Bernadette, ruolo cucitole addosso per pubblicizzare un’immagine di innocentella che poi, alla fine, non le apparteneva, perché Jennifer, in realtà, ha falcato la Golden Age con ruoli ben diversi: magnetici, passionali, roventi, loliteschi.

Con Duello al sole (di King Vidor, 1946) Jennifer ribalta completamente l’immagine di appena tre anni prima: Perla Suarez, meticcia dilaniata dal prurito sessuale per i fratelli Joseph Cotten e Gregory Peck, diventa il lato torbido e sanguigno della pastorella francese. Un dittico femminino che accorpa l’accezione scorsesiana di «donna santa/donna meretrice» e che vede i suoi prolungamenti nella selvatica Hazel di La volpe (1950) – fotografato dall’incantevole Technicolor firmato Emeric & Pressburger – e nell’«affamato» bianco e nero di Gli occhi che non sorrisero (di William Wyler, 1952) in cui Jones sacrifica l’amore di un remissivo Laurence Olivier.

Ma ci sono anche l’onirico William Dieterle (Gli amanti del sogno, 1945 e Il ritratto di Jennie, 1948), l’elegante Vincente Minnelli (Madame Bovary, 1949) e il coraggioso John Huston (Stanotte sorgerà il sole, 1949) che mettono in luce respiri affannati, sentimenti lancinanti e lacrime taglienti cui Jennifer dà forma. La seconda parte di carriera, quella legata agli anni 50, si giostra su sperimentazioni ardite: la diva, ormai lanciata nell’olimpo cinematografico si scinde tra classicità e azzardo. Dopo la prova di Ruby fiore selvaggio (1952), ancora sotto la direzione di Vidor, in cui affianca Charlton Eston, Jones duetta con Montgomery Clift nel travagliato Stazione Termini (1953), sotto la direzione di Vittorio De Sica.

Un’opera troppo ambiziosa nel puntare su un’ibridazione tra neorealismo (sceneggia Zavattini) e glamour (produce Selznick), ingiustamente maltrattata. Sul set Jennifer è bizzosa, capricciosa, tanto che, in una notte di lavorazione, prende a sberle il marito. De Sica e Jones, poi, si rincontreranno pochi anni dopo per le riprese dell’hemingwayano Addio alle armi (di Charles Vidor, 1957), anch’esso flop al botteghino: Jennifer è l’infermiera Catherine, innamorata di Rock Hudson, ma fuori parte per un’età non consona al personaggio, già interpretato da Helen Hayes nella più fortunata trasposizione del 1932.

Nel 1955 ci sono però due casi interessanti: L’amore è una cosa meravigliosa e Buongiorno, Miss Dove. Nel primo, ancora sotto la direzione di Henry King, Jennifer è l’euro-orientale Han Suyin, protagonista con William Holden di un’altra sequenza storicamente erotica, quella in cui i corpi turgidi dei due si accendono di passione, come le sigarette che penzolano dalle loro labbra. Il secondo, invece, vede Jennifer incarnare un’anziana e integerrima professoressa che a causa di un malore rivive tutta la sua vita in flashback. Due prove notevoli in cui Jones riesce a mascherarsi in maniera congeniale, abile nel rimpolpare un repertorio ghettizzato e ghettizzante per i ruoli femminili dell’epoca. Una sperimentazione che termina con l’ultimo titolo prima di abbandonare i set, il cult catastrofico

L’inferno di cristallo (di John Guillermin, 1974), in cui l’ex ragazza di Tulsa è una sofistica lady dell’alta borghesia di San Francisco. E così, senza più Selznick a tenerle testa, Jennifer si risposa nel 1971 con l’imprenditore e filantropo Norton Simon, ritirandosi a vita privata. L’ultima apparizione pubblica risale alla cerimonia degli Oscar del 2003, scegliendo nel mentre una riservatezza encomiabile sul lato privato e rifiutando qualunque rapporto legato al passato, anche a seguito del suicidio di Mary Jennifer, avvenuto nel 1976. Fino al 17 dicembre 2009, giorno in cui Jennifer, all’età di 90 anni, con la sua scomparsa, ha impresso definitivamente la sua presenza muliebre – spesso trascurata all’interno del divismo hollywoodiano tout court – nella nostra amata settima arte. Grazie, Miss Jones.