Esattamente dopo dieci anni dall’uscita del suo lavoro più completo e significativo, La carta del senso, Romano Màdera torna a pubblicare per Raffaello Cortina un libro che rimanda a un prisma sfaccettato, un’opera che supera le barriere di genere che esistono nella saggistica di taglio filosofico e psicologico: Il metodo biografico come formazione, cura, filosofia (Cortina, pp. 262, € 19,00).

Per chi conosce l’avventura intellettuale dell’autore, questo testo sorprendente e rigoroso appare come un tentativo di chiudere il cerchio, portando a compimento alcune intuizioni, riflessioni e sofferte consapevolezze radicate negli anni Settanta del secolo scorso, con premesse ovviamente più antiche e prospettive da mettere alla prova del setaccio del tempo.

Fare i conti con la propria biografia – con quel grumo di vissuti e esperienze che connotano l’esistenza dei singoli dentro (e mai oltre) le cornici delle rispettive influenze storiche, culturali e cosmiche – significa anzitutto assumere una precisa postura etica: non vivere a nostra insaputa, impegnandoci nella ricerca di un orientamento che sappia liberare energie e forze creative prima sepolte. Liberazione che non è mai completa e definitiva, e somiglia piuttosto a un’ascesi permanente, finalizzata a benedire la vita e a assaporare il gusto della gratitudine, nonostante tutto.

Sulla scia di Martin Buber l’intero sviluppo del libro rimane fedele a un’intuizione ben precisa: «cominciare da sé ma non finire con sé». L’orientamento biografico alla cura del Sé non va confuso con la passione narcisistica, per il dramma familiare eletto a chiave di comprensione di ogni traiettoria esistenziale. Al contrario, l’insegnamento di Màdera frequenta il punto di intersezione nel quale eventi collettivi, narrazioni condivise, ricordi d’infanzia e stati di coscienza non ordinari cooperano per donare nuove dimensioni d’essere al processo individuativo del singolo. Il concetto stesso di individuo ne esce arricchito, superando l’atomismo e l’ingenua autoreferenzialità che la modernità occidentale affida all’Io.

L’analista filosofo può quindi raccontarsi, anche in maniera intima e dolorosa, sapendo bene che la sua storia è il precipitato, originale quanto si vuole, di una vita più vasta che ci accomuna nella fitta trama dei rimandi culturali, mitici e storico-politici. Dinnanzi al caos del disorientamento contemporaneo la meditazione di Màdera funziona, nei suoi risvolti enigmatici e illuminanti, come una via simbolica capace di ricomporre i frammenti non solo di una vicenda personale ma anche dei contributi più innovativi in ambito filosofico, psicologico, religioso, e dei tentativi utopici passati e presenti.

Il libro, infatti, alterna acute incursioni nei territori del pensiero teorico e commoventi riprese di accadimenti personali, rivisitati alla luce di un’autobiografia critica che – mediante il confronto rivelatore con sogni e sabbie analitiche – evita di lasciare fuori dagli orli del racconto gli aspetti più sfidanti e perturbanti del proprio destino (quei «doppi impresentabili» che reclamano, per ognuno di noi, ascolto e integrazione al di là delle «maschere sociali» che indossiamo per adattarci alle aspettative del mondo).

Così la morte dell’amato padre, la disfatta dell’esperienza rivoluzionaria nella sinistra extraparlamentare, gli amori difficili e il lento emergere di nuovi orizzonti di senso in seno alle pratiche filosofiche rinnovate e all’analisi biografica a orientamento filosofico, sfociano in un sentire «estatico» che fuoriesce dal soggettivismo e incontra la storia di tutti noi, costringendoci a riconoscerci come pulsazioni dell’intero familiare e sociale.

Il libro di Romano Màdera, che eredita e trasfigura la saggezza antica della filosofia come esercizio di trascendimento della centratura egoica, fornisce la testimonianza diretta di una rinascita possibile e invita ad affidarci a un Senso emergente, ben oltre i fantasmi di padronanza che il nostro «caro io» proietta sulla realtà.