Mentre in Europa da qualche tempo si parla con insistenza di cambiamento climatico e si protesta per il riconoscimento di una politica energetica più responsabile, l’India degli indigeni e forestale è in sommossa per far rispettare i loro diritti, anche questi «green».

Il 13 Febbraio 2019 la Corte Suprema indiana ha emanato l’ordine di sfrattare circa 10 milioni di persone appartenenti alle comunità indigene e forestali dalla loro terra natale. Questo a seguito di una petizione lanciata da un gruppo di organizzazioni conservazioniste (Wildlife First, Wildlife Trust of India, The Nature Conservation Society, The Tiger Research and Conservation Trust and the Bombay Natural History Society) che hanno fatto appello alla Corte Suprema per sfrattare tutti coloro che sono stati considerati «invasori illegali».

I CONSERVAZIONISTI HANNO CONSIDERATO che tutti coloro che vivono in zone forestali – e non considerati eleggibili ai loro diritti forestali secondo il processo della forest rights act – dovrebbero essere sfrattati e categorizzati come encroachers, ovvero invasori illegali.

L’ordine, che ha suscitato l’ira di milioni di comunità indigene e forestali, e smosso le critiche di attivisti, accademici e scienziati, è stato considerato anti-tribale e anti-forestale. Infatti, secondo numerosi esperti, lo sfratto di milioni di persone dalle zone forestali non solo avrà devastanti implicazioni sui diritti umani ma danneggerà anche la lotta globale per salvare le foreste e mitigare i cambiamenti climatici.

Ma chi sono queste persone considerate illegali e perché la corte Suprema Indiana ordina il loro sfratto? Per capire meglio il contesto dobbiamo necessariamente introdurre alcuni dati storici e analizzare la legge, la Forest Rights Act, contestata dal gruppo di conservazionisti firmatari della petizione.

Secondo la FRA, entrata in vigore nel dicembre 2007, le persone che risiedono tradizionalmente nelle zone forestali o occupano questi territori da almeno 75 anni sono eleggibili per il processo di richiesta dei diritti forestali; ossia il riconoscimento della proprietà terriera e l’uso delle risorse forestali utilizzate dalla comunità per la loro sussistenza. Questo con l’obiettivo di facilitare il processo di legalizzazione e di restituire giustizia e dignità a quei popoli storicamente discriminati. Per Inciso, la FRA fu introdotta per affrontare «l’ingiustizia storica» e i decenni di diritti negati ai tribali e agli abitanti delle foreste a causa delle leggi coloniali.

FU PROPRIO CON L’AVVENTO della burocrazia imperiale britannica che l’India iniziò a consolidare le foreste statali, demarcando e conferendo le proprietà forestali allo stato, in parte per garantire un approvvigionamento regolare di legname per l’economia coloniale. Questo è il momento in cui la categoria di encroacher – nella sua forma attuale – è emersa per la prima volta. Ed è in questo momento che sotto il regime britannico le comunità tribali o adivasi hanno iniziato ad essere considerate degli «invasori illegali».

Nonostante la Forest Rights Act abbia riconosciuto questa ingiustizia, il termine continua oggi ad essere utilizzato in maniera impropria, e attribuito a quei cittadini che vivono in zone forestali senza documenti terrieri e che da decenni lottano per il loro diritto alla terra. «Il pregiudizio basilare, che tratta i popoli indigeni come illegali, è indiscusso: i popoli indigeni sono i proprietari delle loro terre e foreste», ha commentato il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti della popolazione indigene, Victoria Tauli Corpuz. «Le popolazioni indigene e le comunità locali – ha aggiunto – sono trattate come occupanti abusivi quando in realtà le terre appartengono a loro, e hanno protetto e amministrato le proprietà per generazioni».

IN INDIA QUESTO TERMINE, che influenza, come in questo caso, le politiche attuali e i discorsi conservazionisti, viene spesso utilizzato per giustificare violazioni, sfratti e continui abusi da parte del dipartimento forestale contro le comunità indigene e forestali.

«Notiamo con dolore che non solo il governo non sia riuscito a difendere i diritti dei popoli tribali, ma che anche la Corte Suprema non abbia applicato correttamente le disposizioni della legge nel corso della sua audizione», si legge in una dichiarazione del All India Forum for Forest Rights Struggles, un movimento che si batte per per la difesa dei popoli forestali.

La dichiarazione ci fa notare come la Corte Suprema Indiana, che dovrebbe proteggere i diritti dei più deboli e assicurare la giusta implementazione della legge, supporti invece coloro che considerano la forets rights act come strumento deleterio per la conservazione dell’ambiente. Infatti nella petizione i firmatari sostengono che 72.000 chilometri quadrati di terra forestale è andata «persa» per il riconoscimento dei diritti individuali (diritto di proprietà) delle foreste.

A parte la rintracciabilità della fonte, come commentato in un articolo dalla ricercatrice Arpitha Kodiveri, è importante sottolineare che queste terre non sono state modificate, e che le popolazioni indigene già abitavano questi luoghi; ciò che è stato modificato è semplicemente il fatto che ora le popolazioni possono beneficiare dei loro diritti.

MENTRE CI SI PREOCCUPA del riconoscimenti dei diritti forestali alle comunità, dato molto più preoccupante sono le numerose «diversioni forestali per attività industriali», che secondo un report State and Environment redatto dal gruppo di ricerca CSE (Centre for Science and Environment) di New Delhi, ha interessato ben 519 progetti, ossia il 65% dei progetti proposti. Un dato importante se paragonato al 45% dei progetti acconsentiti sotto il governo precedente della UPA, che mostra l’interesse verso un certo tipo di sviluppo appoggiato del governo attuale della NDA.

Secondo dati ufficiali, si stima che solo nel 2016 circa 15.000 chilometri quadrati sono stati dirottate per progetti industriali. Questo senza menzionare il fatto che la maggior parte di questi progetti sono stati origine di dibattiti e scontri a livello locale, spesso con la drastica conseguenza di sfratti delle comunità locali. Infatti, secondo un ricerca pubblicata dall’organizzazioni internazionale Rights and Resource Initiatives del 2016, l’insicurezza dei diritti fondiari ha già causato conflitti significativi nel paese; secondo l’analisi questi conflitti hanno messo a repentaglio la vita di 3,2 milioni di persone e messo a rischio investimenti che vanno oltre i 179 miliardi di dollari.

COSCIENTI DI QUESTA SITUAZIONE che mostra una realtà di ingiustizia, oltretutto fortemente appoggiata dai capi del governo attuale, attivisti e scienziati hanno immediatamente sollevato la guardia e denunciato l’illegalità dell’ordine. In una lettera aperta redatta da più di 30 ambientalisti indiani e approvata da centinaia di conservazionisti e esperti di tutto il mondo si legge: «Non consideriamo questo ordine come pro-conservazione. Al contrario, è una vera battuta d’arresto per la conservazione in India. I diritti delle comunità locali sono parte integrante di qualsiasi sostenibile e giusto modello di conservazione, come è ora riconosciuto nel diritto internazionale». Le numerose proteste a livello internazionale contro l’ordine di sfratto, hanno indotto il 28 febbraio la Corte Suprema a sospendere momentaneamente l’ordine di sfratto, annunciando ai rispettivi stati di rimandare i dati consolidati dopo un attenta esaminazione.

NONOSTANTE CIO’ LE COMUNITA’ TRIBALI continuano a sentirsi minacciate dall’ordine di sfratto e le proteste sono dilagate per tutta l’India. Nei primi giorni di marzo in un meeting nazionale organizzato dall’All India Forum for Forest Rights Struggles si è commentato con queste parole: «Siamo scioccati e sconvolti dall’ordine della Corte Suprema del 13/2/2019 per lo sfratto di Adivasi e altri abitanti della foresta dai loro habitat tradizionali, privandoli così del loro diritto alla vita e al sostentamento garantito dall’articolo 21 sancito dalla costituzione indiana».

Dall’altro lato del mondo, il professor Bhaskar Vira dell’università di Cambridge afferma: «Se questo sgombero viene eseguito, causerà massicci conflitti che saranno senza dubbio molto dannosi per la conservazione». Il destino di milioni di comunità indigene è ora nelle mani della Corte Suprema, che ha per ora rinviato l’udienza al prossimo 10 luglio.

DA EST A OVEST SI CHIEDE GIUSTIZIA, sia quella sociale che ambientale, perché giustizia sociale è giustizia ambientale. Victoria Torpuz dell’Onu commenta così: «È grazie alla gestione sostenibile delle popolazioni indigene che l’India oggi ha ancora foreste per cui vale la pena conservare. Per proteggere la fauna selvatica, riconoscere i diritti dei guardiani forestali sarebbe una strategia molto più efficace che renderli senzatetto».