Uscito per Feltrinelli nel 1964 con la bella traduzione di Piero Bernardini e assente dagli scaffali troppo a lungo, nel centenario dei Dubliners Castelvecchi celebra il genio irlandese ripubblicando un volume storico, James Joyce (pp. 958, euro 50), la mastodontica ed essenziale biografia scritta da Richard Ellmann (1959, riveduta nel 1982). Nato a Highland Park (Michigan) nel 1918 da una famiglia ebrea proveniente dall’est europa, Ellmann è stato docente universitario (Northwestern, Emory, Harvard, Indiana, Oxford, Yale) oltre che prolifico e apprezzato critico letterario (su tutto, l’antologia The Modern Tradition). Ma è in qualità di biografo degli illustri irlandesi, come il Nobel William Butler Yeats (The Man and the Masks) e Oscar Wilde (biografia premiata con il Pulitzer nel 1987, da cui dieci anni dopo è stato tratto l’omonimo film di Brian Gilbert con Stephen Fry), che Ellmann ha raggiunto la fama nel mondo anglosassone.
Tra i principali meriti in ambito accademico, a Richard Ellman va ascritto quello di aver riempito, al tempo, un vuoto di pubblicazioni critiche dovuto alla tradizione orale dell’insegnamento e della ricerca in Irlanda. Di aver implicitamente difeso il modernismo irlandese dalle accuse d’indecenza ed eccentricità, marcandone la distanza da quello inglese. E se Joyce è ancora considerato un gigante della letteratura e la sua opera un universo in continua espansione interpretativa, Ellmann è stato certamente il primo ad affrontarne il profilo, critico e biografico, in maniera profonda e capillare e a rendere giustizia alla sua grandezza.
Alla biografia (premiata nel 1960 con il National Book Award) iniziò a lavorare nel 1952 e mai come in queste pagine il lettore verrà sopraffatto da due fascinazioni che paiono mescolarsi di continuo. Da una parte, quella del profilo oscuro, misterico, inesplicabile del dublinese, dall’altra l’americano che assume nei suoi confronti l’atteggiamento celebrativo che si ritrova nelle biografie vittoriane, sposando i metodi analitici del New Criticism, il tutto assistito da un’incantevole trasparenza stilistica: «Nella sua opera è implicito un nuovo concetto di grandezza, da intendersi non come lustro, ma come uno scavare che a tratti raggiunge la superficie del linguaggio o dell’azione. Questo tipo di grandezza si può avvertire anche nella sua vita, per quanto mascherato da umane fragilità. Proprio perché preciso, personale e arbitrario e al tempo stesso capace di abbracciare tutto, spietato e vistoso, lo stile di Joyce è grande».
Ne viene fuori un libro accurato e godibile che mette l’una di fronte all’altra le due anime di Joyce. Su un versante l’artista determinato, geniale ma sempre controverso: «Pochi scrittori si sono conquistati la fama di geni attirando contemporaneamente su di sé tante antipatie e tante critiche. Per i suoi compatrioti irlandesi, Joyce è disgustoso, se non addirittura folle. Per gli inglesi è eccentrico e ’irlandese’. Per gli americani è un grande sperimentatore, un gran signore, forse, però, troppo duro di cuore; mentre i francesi, fra i quali visse vent’anni, ritengono che gli manchi quel raffinato razionalismo che farebbe di lui un vero letterato». Dall’altra parte, c’è il suo imperfetto, manchevole alter ego umano: «Molte cose gli possono essere rimproverate, la tendenza a sperperare, l’attaccamento all’alcol, e altri atteggiamenti poco maestosi o poco decorosi (…). Si attorniava di gente per lo più oscura: certi suoi amici erano domestici, sarti, fruttivendoli, portieri d’albergo, portinai, impiegati di banca, e questa cerchia di persone gli era indispensabile quanto marchesi e marchese a Proust».
Ma assieme allo studio della biografia e delle poetiche joyciane, come ha notato Declan Kiberd, Richard Ellmann possedeva, sopra le altre virtù, un’enorme attitudine empatica. Una disposizione che pare accostarsi al motto wildiano secondo cui il ritratto rifletterebbe molto più l’animo dell’artista che non quello del suo soggetto. In tal senso si può dire che Ellmann sia stato, a tutti gli effetti, esempio calzante del critico come artista: queste pagine (ma lo stesso può dirsi per quelle su Yeats e Wilde) paiono tanto minuziose nei dettagli e nell’aneddotica, tracciando continui link tra la vita e la scrittura, quanto, potremmo dire, introspettive, nemmeno fossero autobiografiche. Una vocazione sincera e poderosa che Ellmann rivela tanto nell’approccio ai suoi scrittori che nei rapporti con i loro amici e familiari; preziosi testimoni oculari, vere e proprie miniere d’informazioni, oltre che di materiali quali lettere, diari, appunti, ma anche documenti personali, articoli di giornale, cartoline e biglietti postali spediti da Joyce ai propri cari nel corso di un’esistenza vissuta da esule.
Se il volume ha un limite, è quello della distanza cronologica che lo separa dai lettori odierni: si porta necessariamente dietro l’inattualità di taluni passaggi critici o, persino, la loro parzialità. Come ha dimostrato John McCourt, Ellmann ha infatti sottovalutato – forse male imbeccato dai resoconti del fratello Stanislaus – la reale importanza formativa dell’esperienza triestina di James. Ma al di là di quest’appunto, la ripubblicazione di James Joyce non va accolta come un inedito contributo critico, quale, evidentemente, non può essere, ma come un documento eccezionale e un necessario omaggio ai lettori italiani.