La domanda meno interessante che ci si possa porre dopo aver riposto L’ultima intervista di Eshkol Nevo, in uscita in questi giorni per Neri Pozza (pp. 368, euro 18, traduzione di Raffaella Scardi), è se quanto si è letto sia frutto o meno della biografia dell’autore, se sia ricostruito intorno a quella sorta di suo alter ego letterario che è il protagonista del libro o sia, senza un’evidente soluzione di continuità, un compiaciuto mélange dell’uno e dell’altro: il tutto rimescolato e reso allo stesso tempo irriconoscibile e affascinante.

Perché lo scrittore israeliano, da oggi nel nostro Paese per una serie di presentazioni, sembra ritornare su molti dei temi che attraversano le sue opere precedenti – dalla crisi della coppia all’amicizia e il cameratismo tra maschi fino allo smarrimento e alla solitudine -, operando però un’ulteriore accelerazione fino a trasformare, complice il ricorso a un romanzo scritto in forma di intervista, la vita stessa in materia narrativa, in apparenza almeno senza troppi filtri. Allo stesso modo, per il nipote di Levi Eshkol, terzo Primo ministro di Israele e tra le grandi figure del movimento laburista – parentela sulla quale lo scrittore non manca peraltro di ironizzare anche in questo libro -, l’occasione è propizia a una riflessione, a un tempo ironica e amara ma sempre profondamente empatica verso ogni essere umano, sulla difficile situazione israeliana, passando dall’intervento per trarre dai guai un amico palestinese, a un complicato confronto con un gruppo di coloni, senza considerare le ripetute sottolineature sulla deriva verso l’autoritarismo delle attuali autorità dello Stato ebraico.

Lo scrittore Eshkol Nevo

Lei ha spesso spiegato di concepire la scrittura come un’indagine. In questo caso a quali risposte, o se preferisce a quali nuove domande è giunto?
Nel giudaismo c’è una tradizione specifica di «domande e risposte» che ricorrono nei libri scritti dai rabbini. Ma cosa succede se il rabbino stesso – o in questo caso lo scrittore – si trova nel bel mezzo di una crisi personale e per rispondere non può che fare ricorso a una verità fragile e piena di dubbi? Detto questo, credo si possa leggere L’ultima intervista come un’indagine sull’onestà. La sua importanza. I suoi limiti. E sulla possibilità o meno di scrivere fiction rimanendo onesti. Inoltre – ma questo lo sto capendo solo ora, attraverso le reazioni di chi ha letto il libro – si può immaginare che sia anche un tentativo di rompere il muro invisibile che talvolta sembra esistere tra uno scrittore e i suoi lettori, per creare un nuovo legame, più aperto.

A partire dalla formula dell’intervista, l’escamotage in base al quale il romanzo si snoda attraverso le risposte che il protagonista offre ai quesiti dei suoi interlocutori, lei sembra aver voluto costruire una narrazione libera dagli schemi.
È andata proprio così. In realtà, inizialmente, stavo lavorando ad un altro libro e mentre lo scrivevo ho provato questa strana sensazione, qualcosa del tipo: «Non sopporto più queste storie! Voglio scrivere qualcosa di grezzo, di unplugged, come si dice per la musica». Quindi, ho iniziato a cullarmi nell’idea di un’intervista immaginaria alla quale rispondere in modo semplice, diretto, diciamo veritiero o almeno libero dal politicamente corretto. Alla fine ne è venuta fuori comunque una storia – cosa posso farci, sono un narratore, è quello che mi viene meglio -, ma con una struttura molto libera e, forse, maggiore saggezza e sincerità.

In questo libro, all’apparenza così intimo, dove il protagonista ci conduce anche nelle sue zone d’ombra, lei mette in risalto alcuni aspetti della situazione di Israele. Come l’incontro con Yoram Sirkin, quasi il prototipo del politico populista di destra. Una scelta ispirata alla realtà?
Per l’intera storia di Yoram Sirkin, un politico emergente della destra populista che non ha nessun programma specifico, se non quello di arrivare a occupare i gradini più alti del potere, mi sono chiaramente ispirato a figure come quelle di Netanyahu o di Trump. Ho attinto anche ai miei ricordi di quando lavoravo nella pubblicità, prima di mollare tutto per dedicarmi alla scrittura, e mi è capitato di collaborare come copywriter con alcuni degli spin doctors più spietati della politica israeliana. Posso dire di aver visto con i miei occhi come manipolando la paura delle persone si possano vincere le elezioni, anche con candidati che non hanno alcuna «visione» o sono decisamente poco brillanti, come accade ormai da tempo nel mio Paese. Perciò, come possiamo combattere le fake news e i politici bugiardi? Forse solo affidandoci alla verità più autentica, nuda e cruda.

Da «L’ultima intervista» emerge una visione sconsolata della politica israeliana e la determinazione del protagonista – come forse del suo autore – a impegnarsi soprattutto perché «l’altro» da sé smetta di essere percepito come tale: la condizione preliminare a qualunque ipotesi di soluzione del conflitto?
È così, ma con una precisazione: l’«altro» a cui penso può essere un arabo per gli ebrei o un colono per le persone di sinistra o ancora un israeliano per un sostenitore del Bds in Europa (il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele, ndr). Come persona – è così che mi hanno tirato su i miei genitori – ma anche come scrittore, mi rifiuto da sempre di partecipare a qualsiasi forma di disumanizzazione di un altro essere umano. Al contrario, scrivere può essere un modo meraviglioso per restituire la propria umanità agli altri, per riumanizzare anche il nostro avversario più determinato. Tutto ciò, ricordandoci sempre che oltre le categorie e le differenze politiche siamo tutti molto più simili di quanto immaginiamo.

Quanto alla situazione concreta, come valuta l’attuale impasse politico di Israele, dopo due elezioni consecutive senza un vincitore ma che hanno confermato l’egemonia della destra?
Non è chiaro come finiranno le cose. Ci sono ancora molti punti interrogativi senza risposta. Ma forse, dopo molti anni, abbiamo la possibilità di cambiare e di veder emergere un nuovo tipo di leadership, più vicina al nucleo di valori intorno ai quali è nato Israele, prima di tutto la democrazia.

Un’ultima domanda. Nanni Moretti ha girato un film tratto dal suo romanzo «Tre piani». Per lei, che ama molto il cinema italiano, cosa ha fatto incontrare quella storia con il regista: quale l’elemento che vi unisce?
Mi sento estremamente fortunato per il fatto che uno dei più grandi registi internazionali, uno di quelli che amo di più, abbia scelto di adattare quel mio libro. La scorsa estate sono stato anche sul set, nei pressi di Roma, e ne ho ricavato la sensazione che il film sarà molto vicino al cuore del libro. Per il resto, credo che solo quando uscirà capirò davvero che cosa Moretti ha trovato nel testo.