Dall’Acquapark di Agrate, Milano a Riverside Park a New York, dalla Svizzera a San Antonio de los Baños a Cuba: parchi giochi che perdono la loro funzione d’intrattenimento per assumere una nuova fisionomia ambigua e solitaria. Playgrounds (2005-2007) è la serie di Linda Fregni Nagler (Stoccolma, Svezia 1976, vive e lavora a Milano) esposta a Palazzo Boncompagni alla VI edizione della biennale «Foto/Industria di Bologna – GAME. L’industria del gioco in fotografia».

Come nasce Playgrounds?
Questa serie è iniziata nel 2005 ed è andata avanti per diverso tempo. Nasce dalla curiosità di frequentare luoghi del divertimento nel momento in cui sono disabitati e acquisiscono un’atmosfera diversa che a volte è anche sinistra. Nel contempo è un lavoro che, come ha detto Francesco Zanot, parla del desiderio di una verifica. Mi riferisco al modo di lavorare in condizioni «anti fotografiche», come nell’immagine di Atlantide a Metaponto (oggi parco acquatico fantasma, ndr), tra Puglia e Basilicata, dove non c’era luce artificiale né ambientale. Ricordo che guardando nel visore del banco ottico non vedevo niente, era tutto nero. Un paio di amici mi hanno aiutata andando da una parte e dall’altra della struttura con delle torce con cui mi facevano dei segnali. Quei due puntini luminosi mi davano l’idea dell’oggetto nell’inquadratura. Era seguita un’esposizione polaroid durata 45 minuti. La verifica del polaroid diceva che l’immagine era fortemente sottoesposta, per questo lo scatto finale è andato avanti per due ore. Quelle fotografie, per me, sono quasi delle esperienze performative. Mi porto dentro il sentimento del luogo, il ricordo di quella notte a Metaponto, sul fondo di una piscina con le rane che gracidavano e la luna piena. Altre volte le esperienze sono state meno positive, come quando ho fotografato la ruota panoramica di Coney Island, a cui è dedicato anche il film Wonder Wheel di Woody Allen, che sarebbe stata abbattuta di lì a poco e da dove scappammo via con il cavalletto aperto perché una gang aveva iniziato a puntarci.

La scelta del bianco e nero è legata alla componente concettuale del lavoro?
Amo molto sviluppare e stampare le foto da sola. Ho imparato a stampare prima ancora che a fotografare, è un processo che fa sempre molto parte del mio lavoro. Direi che in questo lavoro è anche funzionale al cambiamento d’atmosfera, al congelamento dei luoghi e alla loro messa in solitudine.

Hai parlato di banco ottico, una fotocamera che ci riporta ad una dimensione quasi anacronistica di fotografia lenta. Nel tuo lavoro c’è sempre il riferimento alle tecniche del passato, pensando al libro «Yama no Shashin» (Humboldt 2018) con le stampe colorate a mano di epoca meiji. Qual è il tuo rapporto con l’archivio e il collezionismo?
Mi è sempre interessata molto la relazione tra l’ottica e la possibilità di vedere più di quello che vediamo, cosa che lo strumento del banco ottico produce indubitabilmente. Per Playgrounds ho usato il banco ottico per ottenere un negativo di grande formato con una definizione altissima e grande leggibilità ma anche perché è la mia macchina preferita. Il banco ottico è composto da un dorso con un negativo, un soffietto e una lente. Tanti pensano che sia uno strumento complicato ma è il più semplice che ci sia. Quanto al raccogliere fotografie storiche ho cominciato quando frequentavo ancora l’Accademia di Belle Arti di Brera. Foto per lo più anonime perché non m’interessa molto la fotografia d’autore, piuttosto ad interessarmi è la fotografia in sé come strumento d’indagine antropologica, veicolo che ha raccontato un sistema per raccontare noi stessi. È quasi un sistema di autodefinizione dell’umanità. Con il tempo ho messo insieme una collezione di tanti esemplari di fotografia anonima che sono un po’ la fonte del mio lavoro degli ultimi tempi. Il lavoro d’archivio richiede molto tempo, a volte anni di ricerche quindi porto avanti contemporaneamente dei filoni diversi all’interno dei quali individuo delle microstorie nella storia della fotografia.

A proposito di storie «nascoste» viene in mente «The Hidden Mother» (2006-2013), esposto alla 55. Biennale d’Arte di Venezia. In questo lavoro c’è anche la volontà di restituire l’identità al soggetto anonimo che è in ombra?
All’inizio c’è stata l’individuazione, in una maniera quasi casuale, di quello che si è rivelato un vero genere nella fotografia vernacolare sin dai primissimi anni della storia della fotografia. Ho dei dagherrotipi che risalgono addirittura al 1840 circa. Nel caso della mia collezione la regola che mi sono data è stata quella di non andare oltre la nascita dello «snapshot» con le Brownie. Trovando una, due, tre immagini che avevano quella configurazione, quindi con la madre che si nasconde e mostra il bambino ho iniziato a dirmi che probabilmente ce n’erano molte di più, così in dieci anni di ricerca e collezione ho messo insieme più di mille immagini. L’identità non si può certo restituire alle madri, ma per me ha senso che invece di rimanere dei singoli scatti perduti nella geografia del mondo, abbiano trovato una casa in quella teca che ora è stata acquisita dal Musée National de Monaco. Lo studio si è letteralmente trasformato da luogo di produzione a luogo di ricezione.