«Io cerco sempre di complicarmi la vita: sperimento la scrittura in tanti modi». Linda Dalisi è una delle penne più interessanti del panorama teatrale contemporaneo. Formazione da chimica, folgorata a teatro dopo un incontro con Leo De Berardinis nel 1999, è parte fondante della fucina di Stabile/Mobile di Antonio Latella nella veste di drammaturga/ dramaturg. Su questa figura, più europea che italiana, ha di recente pubblicato un prezioso testo (La dramagia- Edward Albee e il mestiere del dramaturg, Emergenze Publishing) in cui scandaglia l’alchimia e la ricerca intorno al processo creativo di una messa in scena, a partire dalla biografia e i lavori del drammaturgo americano. Una lunga ricerca è anche alla base di Bee Riot, lavoro targato Stabile/ Mobile di cui firma scrittura e regia, che debutta sabato 11 giugno al Campania Teatro Festival (prossima tappa Festival Olinda, Milano 21 giugno). In scena la danzatrice Valia La Rocca e l’attore Isacco Venturini: corpo e parola, con un piglio profondamente politico e poetico rintracciabile già nel gioco di parole del titolo che tira in causa miele e rivolta.

Linda Dalisi
«Cos’è l’Eden?» è la domanda che ci accompagna. Il rapporto tra la conoscenza del bene e del male, cosa significa mangiare quel frutto

Da dove nasce questo lavoro?

Ha radici lontane. Circa quattro anni fa incontrai la danzatrice Valia La Rocca e mi venne in mente di scrivere con la danza. Facemmo una primissima residenza in cui lavorammo sul labirinto e sul Minotauro di Borges, ragionando sulla libertà di espressione come arte e forma di lotta. Uno dei nostri riferimenti sono le Pussy Riot. E questo si vede molto anche nel movimento sulla scena. In particolare mi viene in mente un’intervista in cui una delle attiviste racconta la sua esperienza di detenzione. Dice: «La conoscenza è la nostra arma». Non solo perché gli altri siano liberi, ma perché si adoperino a diffondere la loro esperienza. Perché se conosciamo il potere, che può o meno agire su di noi, allora possiamo lottare contro di esso. Contestualmente, alla Biennale affrontavamo il tema della censura. Questi germi sono rimasti, ce li siamo portati dietro. Nel frattempo c’è stata la pandemia, così il labirinto è diventato un esilio forzato, il bisogno di fuggire, la cacciata dalla propria dimensione di Eden. «Cos’è l’Eden?» è la domanda che ci accompagna dal nostro primo incontro. Il rapporto tra la conoscenza del bene e del male, cosa significa mangiare quel frutto, cosa significa conoscenza. La svolta nella scrittura è stata disegnare, immaginare i due interpreti. Abbiamo preso in esame diverse opere, da Steinbeck, al Paradiso Perduto di Milton, o i Diari di Eva di Mark Twain, un testo delizioso e straziante che mi ha fatto fare un click nella testa rispetto ai caratteri che i due protagonisti potevano avere sul palco.

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Come si declina la danza con la parola in scena?

Ho ragionato molto sul doppio piano del far convivere la mia scrittura, che è molto poetica, con la danza. La cacciata dall’Eden o caduta nel peccato fa di loro due una sorta di Adamo ed Eva e comporta una scissione: in scena Valia è in movimento e Isacco fermo. Lui ha la parola, lei l’azione: si completano solo se si ritrovano. L’obiettivo è incontrarsi per andare a riprendersi l’Eden. I loro percorsi li porteranno a risposte diverse su cosa sia questo «Eden» e cosa sia la rivolta.

Nel tuo libro racconti come il processo di creazione sia qualcosa di vivo, frutto di uno scavo e di uno scambio. Vale anche per «Bee Riot»?

In questo caso il discorso della co-creazione è stato potentissimo. Siamo partiti da alcuni spunti ma il testo ce lo siamo scritto noi. È una creazione di noi tre, insieme. Per me è molto importante raccontare e testimoniare come la scrittura sia stata un processo condiviso, dentro e fuori dal palco. Abbiamo trascorso due settimane intensissime in residenza a Rubiera. Eravamo sempre in sala, anche di notte. Tutto quello che accadeva mentre eravamo lì diventava segno drammaturgico, declinato grazie ai due linguaggi del corpo e della voce. Abbiamo parlato tanto, condiviso sempre tutto. Per me il teatro è una scrittura che dall’individuale diventa collettiva, un processo creativo collettivo dove tutto è scrittura.

Tra una «dramaturgia» e l’altra, periodicamente trovi il tempo per lavori in cui ti occupi anche della regia.

Ho bisogno di quella libertà, di mettere in dialogo le varie me che sono nella mia testa e che sono tante. Nel libro viene fuori questo aspetto del mio lavoro. Al contempo, mentre usciva questo testo a cui tengo tantissimo, sentivo un po’ di fame di ritrovare la pagina. Anche solo intesa come rapporto con due performer che si lasciassero abitare da quello che io ho da dire, al di là dello scrivere fisicamente. Ho preso tanti riferimenti, ma di fatto li ho usati per succhiarne il nettare che mi interessava. Per produrre un miele di un’ape un po’ in rivolta.