Steven pensa che il peggior incubo del mondo sia avere un fratello più piccolo che ti insegue per tutta casa, urlante e accaldato. Lo crede sul serio, tanto da scriverlo nei suoi temi a scuola, lamentandosi appena può. Ma uno sciagurato 7 ottobre tutto cambia e un sanguinamento dal naso di Jeffrey, cinque anni, incide la parola «fine» su un’adolescenza un po’ secchiona e assai normale. Il verdetto è di quelli che fanno tremare: leucemia. Così nella famiglia Alper inizia un balletto di notti in ospedale, di incontri notturni, sedute di chemioterapia, stressanti colloqui con i medici, un’altalena di speranze e disperazioni. Tutti vivono in un constante stato di allarme. Jeffrey potrebbe non farcela e un giorno non esserci più. Lo scrittore americano Jordan Sonnerblick (classe 1969) affida il suo esordio nella narrativa per ragazzi ad un tema spinoso e difficile da affrontare con il tono giusto, quello della malattia che colpisce i bambini e che, a volte, non regredisce e suona come una condanna.
Pubblicato nel 2005, I dieci mesi che mi hanno cambiato la vita (Giunti editore, pp. 186, euro 8,90) è uno di quei libri che si divorano con le lacrime agli occhi, ridendo e piangendo. «Se hai un padre che per tre o quattro mesi non dà segni di vita e poi d’un tratto lo vedi piangere come se qualcuno avesse appena sparato a Bambi davanti ai suoi occhi, che fai? Esatto: fili via e fingi di non aver visto un bel niente», confida Steven che, per evitare i morsi potenti dell’angoscia, si rinchiude nella sua unica passione, la musica. Sarà infatti proprio un concerto – lui è il migliore batterista del mondo, secondo il fratellino – a regalare uno dei momenti più emozionanti della storia, non perché accada qualcosa di speciale ma perché l’autore ha saputo cogliere quella polverina magica che spruzza una famiglia sul mondo quando riesce a riunirsi, pure se in condizioni così avverse.
Jeffrey, senza capelli, stanco e sofferente, affronta la malattia con coraggio e aiutandosi con Matt Medic, il suo oggetto d’affezione che esorcizza una morte troppo vicina. Steve, da parte sua, non sa sempre stare al suo posto, si ingelosisce, si sente trascurato, viene svegliato da sogni nefasti, ma non si rassegna. Riscopre la vita, l’amore (anche quello triste con una amica d’ospedale che non ce la farà a rimanere al mondo), la fragilità dei suoi, la bellezza di poter non essere solo e avere un fratello con cui condividere le buone e le cattive notizie.
Nel disastro, affiora qualche lato positivo. Essere grandi, avere lo status di figlio maggiore, comporta degli indubbi vantaggi: «Che strano. I miei non mi avrebbero mai lasciato bere il caffè prima che Jeffrey si ammalasse. Se c’è una cosa che ho capito delle crisi famigliari, è che le vecchie regole vanno a farsi friggere…», riflette Steven. E i giorni passano, aspettando la luce dopo il tunnel.