E’ possibile che una quota inaggirabile della produzione di Carl Gustav Jung, nient’affatto ignota, ma quasi accantonata tra le pieghe dell’imponente mole degli scritti saggistici, dei seminari e delle conferenze, riveli nel fondatore della psicologia analitica anche un notevole artista del Novecento? Ne è persuasa la Foundation of the Works of C.G. Jung , l’istituzione zurighese che dal 2007 si occupa della sua eredità culturale e che oggi, sulla scia del Libro rosso (datato 2009), manda alle stampe un testo dal titolo eloquente, L’arte di C.G. Jung (a cura del nipote Ulrich Hoerni, Thomas Fischer e Bettina Kaufmann, Bollati Boringhieri, pp. 276, euro 60,00 ).

È stata l’uscita del Libro rosso a rivelare con certezza che l’autore dei dipinti e dei disegni, già in parte comparsi in precedenti pubblicazioni ufficiali e attribuiti a un generico «uomo di mezza età», fosse lo stesso Jung: oltre a un condensato delle sue principali intuizioni, erano dunque un autentico «testo illustrato», che offriva la dimensione visiva, decorativa, estetica come parte tanto integrante da coinvolgere persino la stesura calligrafica o la composizione dei capilettera, ovvero la grana stessa del testo.

Un grande fascino estetico

Quando ne venne decisa la pubblicazione in facsimile, in scala uno a uno, il Libro rosso assunse di fatto la veste editoriale tipica dei libri d’arte: grande formato, illustrazioni a tutta pagina, fedeltà nella riproduzione dei colori, alta qualità della carta. Non a caso, dopo essere stato in mostra in alcuni tra i principali musei americani e europei, al Libro rosso fu riservato il Padiglione Centrale della Biennale di Venezia, nel 2013. È dunque sull’onda del suo sorprendente fascino estetico, nel tentativo di espanderlo e di consolidarlo, che ha preso corpo L’arte di Jung, e con buone ragioni. Jung possedeva un’ottima abilità manuale e una notevole versatilità nell’uso di varie tecniche espressive, cui faceva ricorso ogni qual volta sentiva di trovarsi – come egli stesso ha raccontato – in un «vicolo cieco» della sua esistenza.

Il volume passa così in rassegna e documenta l’intero arco di questa produzione «estetica»: dai primi disegni di città, castelli e scene di battaglia realizzate a grafite o con l’inchiostro, ai paesaggi dipinti ad acquerello, guazzo o pastello; dai disegni della sua casa di Küsnacht ai progetti della Torre di Bollingen; dalla serie delle immagini circolari (mandala), comparse nei sogni e nelle visioni e riprodotte a colori su carta e pergamena alle sculture in legno e in pietra; dalla rielaborazione dello stemma di famiglia alla progettazione delle lapidi commemorative.

Osservando l’insieme di queste immagini non si può non restare stupiti dall’ampiezza della loro gamma espressiva e dalla variegata maestria artigianale che rivelano. Molti dei mandala, e delle iniziali miniate tratte dal Libro rosso sono di indubbia bellezza; ma basta, questo, a tracciare il profilo di uno Jung «artista»? Anche ammettendo che il cerchio di un simile profilo si chiuda, occorrerebbe blindarlo, tanti e tali sono i passaggi concettuali junghiani che concorrono a rendere problematica una simile operazione: i curatori, pur corredando il volume di un commento puntuale e dei riferimenti ai testi junghiani di volta in volta accostabili, sembrano non avvedersene. A dispetto del titolo, il libro documenta fedelmente il rifiuto che Jung mantenne fino alla morte di firmare a proprio nome le sue «opere visive» e riporta la sua caduta in quello «stato di turbamento emotivo», in base al quale distrusse «la simmetria dell’immagine» mandalica che stava disegnando, quando Maria Moltzer – una ex paziente e poi collega – insistette nel sostenere che le sue fantasie «avevano un valore artistico e dovevano essere considerate opere d’arte».

Perché un simile rifiuto? A spiegarlo non basta la nota avversione di Jung nei confronti dell’arte moderna, culminata nella pubblicazione dei suoi saggi su Picasso e su Joyce, né bastano l’indifferenza, quando non il fraintendimento, che – a suo dire – quei saggi ricevettero dalla critica. Tutti i pochi scritti di Jung sull’argomento dimostrano che il suo rapporto con l’arte fu più complesso e articolato, perché all’arte egli assegnava un valore tale da valicare sia i confini della pura «dimensione estetica» sia quelli delle vicende biografiche dell’artista. Una autentica arte, un’arte impersonale e visionaria, poteva dirsi tale, per lui, solo quando fosse stata in grado di gettare un ponte verso la riva sconosciuta dell’inconscio e indicare simbolicamente alla propria epoca storica l’orientamento di cui andava in cerca. L’insistenza dell’arte del Novecento sulla frammentazione delle forme e la disarticolazione del linguaggio non era dunque casuale, bensì correlata alle esigenze di un tempo «in cui tutto vacilla», in cui niente è vero, in cui le dominanti collettive del passato si sgretolano.

Allo stesso tempo, tuttavia, l’inclinazione alla frammentarietà riceveva il suo impulso da ben più lontano: essa affiorava, secondo Jung, dal versante oscuro della spiritualità cristiana, ovvero da «qualcosa» che era rimasto escluso dalla sua concezione trinitaria e che, dal medioevo in poi, aveva progressivamente aumentato la pressione delle proprie rivendicazioni, svuotando di credibilità il cristianesimo, incapace via via di darne conto: era la presenza del corpo, della materia, dell’ombra, del male. La stessa «scoperta dell’inconscio» era il risultato della trasmissione segreta di questo «quarto» escluso.

Per quanto l’artista moderno, dissolvendo e dunque svalutando l’oggetto raffigurato, si mostrasse in sintonia con l’introversione richiesta da questa «scoperta», il suo compiacimento e la sua fissazione per la frammentarietà ne tradivano invece il mandato, che andava ben oltre il mero rispecchiamento di quanto accadeva nella realtà esterna. Fino a quando, mettendosi al servizio dell’inconscio, non fosse arrivato a realizzare una nuova forma comprensiva di quel «quarto» escluso, l’artista sarebbe rimasto subordinato e incatenato al medioevo cristiano, cioè all’ultima configurazione collettiva «moderna» esistita in occidente.

Quel che resta di attuale
Fino ad allora l’autentico artista avrebbe dovuto dedicarsi a un’opera che stava al di qua di qualunque rappresentazione artistica comunemente intesa: all’opera su se stesso, all’opera di ri-centramento sul «proprio» inconscio. Non è così ancora oggi, quando la nostra identificazione con i frammenti si prolunga e ci incatena, benché le forme contro cui lottiamo siano ormai fatiscenti? Oggi che le immagini, comprese quelle artistiche, inquadrando ogni minimo aspetto della vita, non mettono a fuoco più nulla, oggi che il cuore dell’immagine è senza immagine, l’ultraestetismo di Jung pare tornare più attuale della sua consacrazione artistica: forse il suo desiderio di anonimato, lavorando al cuore senza immagine dell’immagine, lavora anche al cuore dell’epoca.