Fino al prossimo 27 febbraio, il Palazzo delle Esposizioni di Roma racconta il carattere della città che lo ospita intrecciandolo con il senso profondo del tempo e dello spazio, lungo le trame di una trilogia allestita dallo studio Formafantasma. In «Ti con zero» e «Incertezza», artisti e scienziati si confrontano sulle sconfinate visioni del futuro e sul precario equilibrio tra caso e logica, mentre il perno dell’intera esperienza, dal quale si dipana un romanzo tanto complesso quanto urgente, continua a ruotare intorno a «La scienza di Roma», a cura di Stefano Papi e Fabrizio Rufo, docente di Bioetica presso la Sapienza. Con lui abbiamo discusso della relazione – misconosciuta – tra i due soggetti che danno il titolo alla mostra.

Professor Rufo, come nasce questo progetto?
Nel 2019, per una ricerca, mi imbattei nella vastità delle collezioni scientifiche cittadine, constatando quanto fossero disperse e insufficientemente valorizzate, anche a causa della soffocante cappa rappresentata dal patrimonio storico, artistico e archeologico. In diversi casi ci si limita a custodirle in semplici magazzini; poche di esse hanno raggiunto la dignità che meritano. Ce l’ha fatta il museo pleistocenico di Casal de’ Pazzi, ma sopravvive a fatica quello della comunicazione all’Eur. Soffrono l’osservatorio astronomico di Monte Mario, il museo dell’Iss, l’Infn di Frascati e l’Inaf di Monte Porzio Catone. L’Ospedale di Santo Spirito in Saxia, con il suo Museo dell’Arte sanitaria, il Museo della Mente del Santa Maria della Pietà e il Museo civico di zoologia sono luoghi preziosi. Ma in quanti li conoscono?

Quali criteri avete seguito per selezionare il catalogo?
Avanzando alla maniera di esploratori, siamo stati attratti dal valore epistemologico degli oggetti, dei documenti e dei libri rari. Al Museo della Comunicazione dell’Eur, che accoglie il laboratorio del panfilo Elettra, abbiamo chiesto il radiotrasmettitore a onde medie di Marconi e l’elaboratore Olivetti Elea. Dalla straordinaria miniera costituita dai musei della Sapienza abbiamo portato gli strumenti utilizzati dal gruppo di Enrico Fermi, grazie ai quali nasce l’era atomica. Ci siamo quindi concentrati sui materiali che evidenziano l’impegno profuso da Giovanni Battista Grassi per debellare la malaria, contribuendo così alla genesi dell’Istituto Superiore di Sanità.

Si ragiona da anni sull’opportunità di aprire nella capitale un Museo della Scienza.
Oltre la proposta, tuttavia, nulla si è saputo costruire. Al limite la si è ridotta a un problema urbanistico. Servirebbe invece un dibattito simile a quello che favorì la fondazione dell’Auditorium. Avremmo bisogno di un’officina di citizen science, con occasioni di formazione, conferenze e festival dedicati alla cittadinanza. Conta soprattutto tessere una rete di musei diffusi, per esempio riproducendo in altre realtà la vocazione del Museo di Casal de’ Pazzi, capace di invogliare un quartiere alla spontanea adozione di un istituto pubblico ormai assimilato a una peculiare identità urbana.

Il professor Fabrizio Rufo

Qual è il messaggio della mostra?
Ci piacerebbe sensibilizzare la cultura romana, sulla quale ancora incombe la spinta idealistica crociana, secondo la quale la scienza si esaurirebbe in mere ricette di cucina. Sulla città insiste una micidiale eredità pasoliniana che ha strutturato l’intellettualità di importanti pezzi di ceto politico, specialmente a sinistra. Nello scontro divampato sulle riviste degli anni ’60, il primitivista Pasolini prevalse sul progressista Calvino: non smettiamo di pagarne le conseguenze. Un devastante storytelling, permeato di cliché, vorrebbe Roma incapace di riconoscersi quale intelligenza collettiva. Pare quasi che la scienza sia aliena alla cultura: la dipingono antipoetica, eppure è umanissima; la concepiscono funzionale allo sviluppo economico, ma resta la maggiore forza emancipatrice di cui disponiamo. Se a noi dovesse rivelarsi una chiave per la soluzione dei problemi climatici, ci verrà da un surplus di conoscenza e non da fughe irrazionalistiche verso arcadie improvvisate.

La visione di Roma che si preferisce offrire sembra cadere nella trappola di un’eterna dissonanza cognitiva nutrita dal contrasto tra la bellezza dell’ideale e lo spreco della realtà. La letteratura contemporanea, da «La città dei vivi» di Lagioia a «Remoria» di Mattioli, ha gioco facile in narrazioni incardinate sul disordine.
Capisco si descriva il caos, ricordo però che un romano si è appena guadagnato il Nobel della Fisica con la sua nemesi: uno studio sulla teoria della complessità. E ricordo che, durante la Guerra fredda, Roma è stata a lungo la terza capitale mondiale dell’avventura spaziale: dopo Cape Canaveral e Bajkonur, si sognava il cosmo dalla borgata di Fidene. Inoltre, Roma era intrisa di scienza già sotto il papa re, quando si producevano i migliori telescopi: quello che presentiamo fu installato dai Torlonia sulla torre del Campidoglio. E a Roma, nel 1633, si è svolto il processo a Galileo: certo si concluse male, tuttavia impose la tesi di quell’uguaglianza delle intelligenze di fronte alle verità che annuncia la democrazia moderna.

La politica ha mai provato a inseguire il progresso?
Quintino Sella, da ministro delle finanze, ebbe un’intuizione della quale ancora beneficiamo. Sarà stato anche un ingenuo positivista, ma richiamò in città il chimico Stanislao Cannizzaro, il fisico Pietro Blaserna, il matematico Luigi Cremona. Allora la politica lasciava libera la scienza. Il geologo Giuseppe Ponzi aveva partecipato alla Repubblica romana e per questo fu messo all’indice. Eppure Pio IX non dubitò nel riportarlo in cattedra, come testimonia la lettera in mostra. Allo stesso modo, dopo Porta Pia, Vittorio Emanuele II lo confermò senza scomporsi. Sella avrebbe desiderato alla Sapienza anche colui che per primo usò la spettrografia per analizzare gli astri: Angelo Secchi, un gesuita.

«La scienza di Roma», che si chiude con uno sguardo sul futuro riconnettendosi a «Ti con zero» e «Incertezza», inizia dalla preistoria.
Nonostante ci ostiniamo a schiacciare la vita della città sulla storia, il suo tempo è un abisso. Per gridarlo, apriamo con il cranio neanderthaliano di Saccopastore. Sul luogo del rinvenimento, immortalato dalla foto scattata nel 1935 da Alberto Carlo Blanc e Henri Breuill, era previsto un parco archeologico. Però ora c’è un bar. E dove c’è il bar, c’erano gli elefanti. Vivevano in periferia come in centro: lo dimostra un fossile di Palaeoloxodon antiquus trovato ai Fori Imperiali nel corso dello sbancamento della Velia, tagliata per rendere visibile il Colosseo dall’Altare della Patria. Ha almeno 360 mila anni. La sua testa, con le zanne, è rimasta nelle casse dal 1932 al 2021. Meriterebbe di essere definitivamente esposta nella futura stazione dei Fori Imperiali, come propone Patrizia Gioia. Sarebbe il giusto tributo alla maestosità di una dimensione cronologica superiore alla nostra immaginazione.