È solo una suggestione quella che ci induce a leggere l’ultima opera poetica di Anna Segre, A corpo vivo (Marietti1820, pp. 152, euro 15), quasi come una forma di confessione resa all’interno di una stanza di analisi? È una suggestione derivante dal fatto che Segre è appunto anche questo, oltre che una poetessa: una psicoanalista di professione? O non è forse la presenza nell’opera, al di là di qualunque suggestione, di molti degli elementi che caratterizzano una stanza di analisi?

Si tratta, secondo un’indicazione fornita dalla stessa autrice nella introduzione, di un «discorso amoroso spezzato in 84 poesie», di «una sola frase, pronunciata come unica fino alla fine», o «una tela senza giunte, dove l’interpunzione serve solo a prendere fiato». L’intero discorso si svolge nel contesto di un continuum spaziale e temporale, all’esterno del quale non sembra esistere nient’altro. E non è questo vuoto, questa sospensione del tempo, una delle prime caratteristiche di una stanza di analisi? Non è forse a questo che aspira, in primo luogo, chi vi entra? Questo diritto, quantomeno per la durata della permanenza nella stanza, alla sola esistenza del proprio tempo vissuto; un diritto, per quanto provvisorio possa esserne l’esaudimento, a preservare la propria interiorità dal mondo che, intanto, fuori dalla stanza non smette mai né di esistere né di scorrere.

IL DISCORSO di Anna Segre non è semplicemente «amoroso». Letteralmente è ossessionato dall’amore nei confronti di Clara, alla quale la parola è rivolta, nella costante «oscillazione» – come sottolinea Franca Alaimo nella splendida prefazione – «fra celebrazione dell’amata e la sua esecrazione, fra picchi d’estasi e querulità». Come tale, non teme il naufragio, non cerca riparo, sfonda qualunque argine o limite.

La parola di A corpo vivo si esprime «a dispetto del senso», che cerca di «sovvertire la ragione», è quella di un «inciampo», della violazione di qualsiasi divieto. È una parola che non ha bisogno di capire, per sapere (Marina Riccucci, nella postfazione, parla di «precognitività»). Muove dal desiderio, dalle pulsioni dell’istinto, del corpo, perciò sfiora talvolta la dimensione del sogno e spesso è prossima alla follia tout court. E non sono, queste, forme di espressione dell’inconscio, alla cui emersione proprio la stanza dell’analisi dovrebbe votarsi per definizione?

«NON CREDO CI SIA qualcosa di più rischioso», scrive ancora la stessa Anna Segre nell’introduzione, «che amare davvero qualcuno». Ed eccolo il rischio: esporsi senza filtri, di esporre perfino il proprio inconscio, affiorante sul corpo, allo sguardo magari anche impietoso dell’altro da noi. E del resto la poesia quindici lo dichiara in forma di clausola pressoché definitiva: «Clara,/ sono di vetro/ mi si vede tutto».

Coglie nel segno Franca Alaimo, anche a questo proposito, quando avvicina le pagine di A corpo vivo a certe altre di Adriana Zarri, per il carattere sacro e quasi mistico, nel superamento e nell’abbandono di sé, anche attraverso il desiderio erotico, carnale, sensuale.
Cos’altro chiede chi entra in una stanza di analisi se non l’ascolto silenzioso e non giudicante? Qui, rispetto alle poesie, l’analista è in fondo ognuno di noi che le legge; qui Segre non è più un’analista ma è solo una poetessa. Gli analisti siamo noi, nella misura in cui la leggiamo e le tributiamo attentissimo ascolto.