Ha un sorriso particolare, da bambino colto in fallo, Fausto Melotti. Lo vediamo in una bella intervista realizzata per la Rai da Antonia Mulas, moglie di Ugo, poco tempo prima di morire (era il 1984, si spegnerà nel 1986): piega la bocca da un lato, spalanca gli occhi chiari e quasi sussurrando dice la sua, una frase breve, spesso una sentenza spiazzante. Come quando insiste su ciò che tutti nascondiamo, sul lato-ombra dell’esistenza. Non è il visibile – evidentemente – il materiale che manipola l’arte. Nel prezioso libro edito da Adelphi (Linee) dove si custodiscono molte sue illuminazioni, non è casuale che la maggior parte degli aforismi raccolti corrodano dall’interno la linearità (appunto) del tempo «umano».
Un po’ filosofo dello stupore, fiabesco pensatore a cui è sempre piaciuto abitare il margine rischioso che si estende tra il sartriano «essere e il nulla», ingegnere per studi universitari, matematico per passione e musicista per avventura dello spirito, Melotti rappresenta tutta la versatilità dell’esploratore del Novecento.

MELOTTIRITRATTO

Una curiosità culturale e creativa che all’inizio della sua carriera ha pagato cara, rimanendo emarginato, incompreso, «solo e in silenzio» confessò egli stesso, anche dopo il suo primo exploit alla galleria Il Milione di Milano, nel 1935: per Carlo Carrà quelle di Fausto Melotti non erano neanche da considerarsi sculture. Eppure la fragile precarietà delle sue figure filiformi, oggetti volatili che resistono alla musealizzazione perché sono fatti della consistenza dell’aria (anche se in oro, ottone, ceramica), sono sculture a tutti gli effetti; solo che somigliano ai contrappunti musicali, espandono tutt’intorno sequenze di ritmi, non sono eredi di calchi e gallerie di statue. Hanno a che fare con l’indicibile e l’imponderabile, geometriche, astratte creature poco avvezze alla monumentalità. Fantasmi impalpabili, che generano trasalimenti li definì il cugino Carlo Belli, mentore dell’astrattismo e dell’essenzialità spaziale con il suo libro Kn.

L’Expo meneghina ha scelto come immagine la meno melottiana fra tutte le opere dell’artista di Rovereto, quella colossale Grande Madre che ha dovuto aspettare settantatré anni per venire alla luce: realizzata per l’Esposizione Universale di Roma del 1942, rimase orfana del pubblico quando un bombardamento la costrinse a tornare indietro, eclissandosi per decenni. Così, a ricondurre al suo dna l’autore in questione ci ha provato il Nouveau Musée National de Monaco, diretto da Marie Claude Beaud. Nella sua sede di Villa Paloma – l’altra ala è Villa Sauber, ma qui la mostra è Construire une collection#2 – ha appena inaugurato una personale dedicata a Melotti, provando a immaginare uno scarto, un percorso a tema che orienti la lettura delle opere. In scena, sala dopo sala, c’è l’intellettuale e artista che entra in relazione con la rivista Domus, soprattuto con Giò Ponti che la fondò nel 1928.

La rassegna di Monaco, ideata da Eva Fabbris con Cristiano Raimondi (curatore del museo), allestita con «effetti speciali» dallo studio di architettura Baukuh e Valter Scelsi (visitabile fino al 17 gennaio 2016, prevede anche una Project Room con Alessandro Pessoli e le sue ceramiche) non ha nessuna ambizione da «catalogo generale», ma ha un taglio deciso e preciso: sceglie i lavori che sono stati pubblicati in fotografia (o di cui si è parlato per mezzo di voci autorevoli, come Carlo Belli o Lisa Ponti) sulle pagine di Domus, nel periodo che va dal 1948 al 1968. Non c’è solo l’artista a fare capolino fra le righe tipografiche, ma anche l’articolista, il recensore, l’attento critico della produzione altrui e il redattore di quel manifesto d’intenti che fu L’incertezza, sorta di lettera d’amore indirizzata all’indomabilità dell’arte.

«Per soddisfare le esigenze di una clientela anonima, generalmente incolta, e diffusa nei continenti, è necessario, si esige – scriveva nel 1963 sul numero 400 della rivista – che le opere di ogni artista siano strettamente classificate. Gli incerti disturbano anche le classificazioni dei critici. Parlando della nostra incertezza non pensiamo certo alla sublime, quasi teologica, indecisione dei grandi spiriti. Ci accontenteremo essa fosse il vento dei Campo Elisi che agita e scuote le canne vuote e sensibili. Ma forse il cavallo che dà in stranezze e scalcia contro lo steccato, sta solo sognando il nulla». Ancora oggi, quella manciata di poetiche parole, che si organizzano come fossero melodie, è una definizione bruciante – la migliore – della sua scultura tout court.

Fu proprio Ponti a salvarlo dal baratro quando il suo astrattismo profetico non era riuscito a conquistare i recalcitranti italiani. Melotti deviò verso la ceramica, divenne decoratore guadagnandosi da vivere («avrei potuto diventare miliardario», lo sentiamo dire nella intervista in mostra, sempre con il viso illuminato da quel suo sorriso sornione).

L’itinerario di Monaco presenta molti lavori in ceramica, dalle tazzine funzionali e raffinatissime alle piastrelle fino ai meravigliosi teatrini con cui raccontò anche l’angoscia della guerra. Eppure Melotti un po’ si vergognava di quella sua produzione. «È come un poeta alle prese con gli slogan della pubblicità, ne potrà fare di bellissimi ma saranno sempre delle pubblicità, non dei versi». Nonostante la ritrosia dell’artista, in quel lavoro scopriamo alcuni testamenti sublimi, come la facciata decorata della villa Namazee di Teheran, progettata da Giò Ponti in omaggio al suo concetto di joie d’y vivre.

Ma dov’è il problema della produzione più «industriale» di Melotti se anche quella allude all’astrazione ed è profondamente coerente con la sua ricerca? Probabilmente è in una rivendicazione intima: lo scultore reclamava il divertimento del gioco fine a stesso, l’antifunzionalità dell’arte. Quando tornerà alle sue sculture liriche, in fondo, Melotti sarà felice.

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Schivo, ma non timido, appartato ma non snob, amava soprattutto «i vagabondi dei sentieri incerti». Considerava artisti veri Dubuffet e l’amico Fontana, mentre in un immaginario piccolo museo da lui allestito avrebbe volentieri messo opere di Matisse, De Chirico, un po’ di Brancusi, «e poi, basta. Sì, ci vuole anche qualche Picasso, ma di quelli belli perché ha fatto tantissime cose che belle non sono. Ha avuto un tale tumulto di idee nella sua lunghissima vita che rappresenta l’ansia di questo secolo, in lui si vede benissimo il trapasso di un’epoca che sta morendo».

Quando invece qualcuno lo accostava ad altri artisti, ringraziava se veniva imparentato a Klee, «il quale parte da una base musicale, come succede a me», ma riconsegnava al mittente la consonanza con Alexander Calder, «un artista geniale che eccede nella ripetizione, il che equivale a semplificare… I legami con Calder aspetto che me li spieghino. La fisica è lontana dalla musica».

Le variazioni e l’imprendibilità della musica restano l’unico codice con cui decifrare le sue sculture: «La mattina vado in studio e comincio a lavorare, ma non so bene che farò. Ho sempre, davanti a me, una cosa misteriosissima. Per avvicinarla, devo prima perdere tempo. La coscienza arriva senza che tu lo sappia. Credo che sia ciò che succede al compositore, va al pianoforte, mette le mani sui tasti, escono dei suoni che poi si organizzano in un motivo. Sono le mani stesse a guidarlo. L’arte astratta non viene dai fenomeni della natura, viene solo dall’arte».

Oggi l’eredità di Fausto Melotti è difficile da conservare. La friabilità del suo mondo scultoreo richiede cure speciali, soprattutto rammenta a tutti che i sogni sono fatti di aria. E, a volte, anche di qualche metallo.