Una coppia di giovani palermitani col desiderio di fare un film, allenati dal lavoro su sceneggiature e progetti altrui, vince il Solinas con una storia di mafia che piace a due produttori, tra cui Fabrizio Mosca ( sì, il produttore dei Cento passi), trova interlocuotori nazionali (il Torino Film lab) e internazionali (tra gli altri Arte), riesce a girare il film che arriva a Cannes, nel cartellone della Sémaine de la Critique, senza distribuzione conquista il Gran Prix. La critica di tendenza d’oltralpe impazzisce, Libération in testa, e sì che verso il cinema italiano sulla Croisette non sono mai troppo teneri (non è solo Sorrentino che mal digeriscono). 

Salvo prende il titolo dal nome del protagonista, un killer di mafia con gli occhi di ghiaccio che non sbaglia un colpo: da solo sventa l’agguato di una banda nemica, estorce il nome del traditore, ma quando arriva dal nemico per eliminarlo accade qualcosa di imprevisto: in casa c’è anche la sorella cieca di lui, Rita, e nei minuti, una manciata eppure lunghissimi in cui condivide lo spazio delle stanze con la ragazza, ascoltando il battito della sua paura, il killer è spiazzato e di impulso invece di ucciderla la prende e la porta via. Un gesto che avrà un prezzo molto alto ..
Eppure Salvo non è un film «di» mafia, magari è un film dentro la mafia o con la mafia, senza riferimenti cinefili o di citazione del genere. Non siamo nel Padrino o in Good Fellas, Grassadonia e Piazza provano a ricreare l’universo mafioso fuori da questi codici, affidandolo a una partitura sonora costruita sui rumori degli ambienti, e alla performance più che alle psicologie dei protagonisti, i cui corpi attraversano spazi fisici e emotivi interni e esterni. Saleh Bakri, un po’ Schwarzenegger e moltissimo il padre, il grande attore palestinese Mohamed Bakri, che al mondo e ai malavitosi oppone una sola rigida espressione, e Sara Serraiocco, che forse esagera un po’ nello strabuzzare occhi e mani quando recita la cieca, nel corpo a corpo invisibile in piano sequenza col killer. Entrambi animaleschi, senza parole, solo un sentirsi reciproco di paura, diffidenza e attrazione che li fa esplodere dall’interno.

Intorno a questo nucleo i registi costruiscono la loro trama, orchestrata dal montaggio di Desideria Rayner, che procede per sottrazione. Una Palermo anonima e volutamente straniata, di cui la fotografia (molto felice) di Daniele Ciprì illumina i lati degradati e marginali, quasi un paesaggio da western all’italiana (quello che piace a Tarantino), fiabesco e surreale. Come il teatrino familiare, di complicità ribelle maschia-omoerotica tra Salvo e il suo padrone di casa, marito silenzioso e succube (Luigi Lo Cascio) di una donna (l’unica altra presenza femminile in quell’universo di uomini) megera.

Dalla violenza al miracolo, passando per il melò d’autore di un amore inconfessabile, la scommessa dei registi è quella di spostare l’iconografia «mafiosa», e il racconto della realtà, su un altro piano, dove dal gesto eclatante (lo hanno definito anche «l’anti-Gomorra») si passa al quotidiano di complicità e accettazione, di piccoli favori e ipocrisie, di occhi che non vedono come quelli di Rita perché non vogliono vedere, e se vedono finisce il mondo. É la realtà, attuale, dentro e fuori lo schermo, conflitto di sussulti e di consapevolezze necessarie, che molto dice sul mondo a cui i due registi fanno riferimento, assai poco letterario, e così «vero» nella sua dimensione magica. Mare e cielo qui non hanno niente di poetico, sono inquinati come le apocalissi che Ciprì ai tempi di Cinico tv distillava nelle immagini di un’umanità non più umana, post apocalittica forse, o sopra la quale l’apocalisse era passata nell’indifferenza e nell’apatia.

Lì però c’era un fondo disperato e viscerale che qui si ha l’impressione che manchi. Non solo per impacci narrativi o di messinscena, che anzi sono vitali in un «oggetto» eccentrico come è questo nel nostri cinema. Salvo sembra rispondere alle logiche «artie» che da qualche tempo indirizzano il cinema indipendente mondiale sviluppato nei Film Lab del mondo (spesso curati dalle stesse persone). Che, appunto, è un bene abbia trovato qualcuno capace di farne uso anche in Italia, ma che rischia di diventare a sua volta una formula troppo di stile nelle imperfezioni.