«All he knew was that this was the worst time», attacca The Noise of Time di Julian Barnes, il romanzo che lo scrittore inglese ha dedicato alla figura di Šostakovic. Queste parole rendono meglio di qualsiasi polemica, come quelle suscitate dalle discusse e discutibili Testimonianze di Solomon Volkov. Il «rumore del tempo» è parte di un verso di Mandel’štam, grandissimo poeta russo, contemporaneo di Šostakovic, morto in un gulag nel 1938. Un turbine di pensieri, di memorie, di emozioni ha suscitato l’ascolto della Decima Sinfonia interpretata da Kirill Petrenko alla testa dei suoi Berliner Philatmoniker nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, evento conclusivo del Festival Romaeuropa. Commossi per la penetrazione, il vigore, la chiarezza con cui Petrenko l’ha interpretata e per il suono secco, tagliente, furibondo, ma anche dolcissimo, tenero dei Berliner. Si è detto e stradetto che questa sinfonia, composta nel 1953, l’anno della morte di Stalin (e di Prokofiev, morto lo stesso giorno di Stalin) fosse un grido di liberazione dall’oppressione del tiranno.

MA PER ESSERE una liberazione è una sinfonia troppo amara, troppo cupa, disperatissima. L’incubo del male che ha inquinato il Novecento non si rapprende in una singola figura di potente. La sigla musicale, tratta dalla trascrizione tedesca del nome del compositore, D ES C H, re mi bemolle do si, da D-mitrij SCH-ostakowitch, percorre tutta la partitura e la conclude, sembra, trionfalmente. In realtà è, piuttosto, l’affermazione di un’autonomia: sono io che scrivo, io che compongo. È il racconto di una sofferenza, la sofferenza di vivere in questo tempo, the worst time. Che non è solo il tempo di Stalin. Ma di una sorta di malattia della distruzione che caratterizza tutta la prima metà del secolo, di cui Stalin è solo una faccia. Hitler, Mussolini, Franco, l’atomica di Hiroshima ne sono alcune delle altre. La bellezza tremenda di questa musica è parossistica. Il pubblico, alla fine, esplode in un’ovazione trionfale. Forse il fatto che Petrenko sia russo e che i Berliner siano la grande orchestra che sono ha influito sull’intensità dell’interpretazione, sulla sua lucidissima violenza.

MA POI SI PENSA all’inizio del concerto, a quel miracolo di equilibrio formale ed espressivo che è la Terza Sinfonia, «Scozzese», del berlinese Mendelssohn e allora la riflessione si fa più complessa. Il respiro insinuante, ampio, dolcissimo, con cui Petrenko ha attaccato la sinfonia era già l’indicazione di una lettura: attenti, dietro tanta chiarezza strumentale, bellezza melodica, c’è un mondo inquieto, ambiguo, pieno di ombre, quasi una malattia del dolore. Una musica del nord. Delle brume, delle tempeste marine, del vento nelle brughiere. Un mondo che affascinava Mendelssohn, fin da ragazzo. Dallo shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate, composto a 17 anni. E queste brume, questi sogni, questa malinconia intima, racchiusa in sé stessa, era la chiave di lettura che Petrenko ha dato della sinfonia. Indescrivibil il clamore degli applausi.