Due storie. E un poeta a tentare di raccoglierne i guizzi intermittenti mescolati al denso alito del mare: acqua sconfinata che tutto ingloba e avvince, cleptomane dalle volubili correnti senza fede né pazienza («which has no faith no patience / just kleptomaniac and fickle currents»). Nella murkines (torbidità) di mezzo, tante voci che si rincorrono apparendo / sparendo secondo la metrica delle onde o nei gorghi dove il mare precipita nei suoi segreti culti. Nobody (Jonathan Cape, pp. 88, £ 10), il nuovo lavoro di matrice ecfrastica della poetessa inglese Alice Oswald – prima donna a essere eletta Professor of Poetry all’università di Oxford –, è un’impresa mesmerica che restituisce la discesa coraggiosa nel mondo omerico dell’Odissea. È nel terzo libro, citato in epigrafe, che si racconta del poeta pagato da Agamennone per spiare Clitennestra e di come Egisto lo avesse fatto tradurre su un’isola petrosa. Nobody inizia da lì, da quel poeta che può solo ascoltare qualcosa che tuttavia gli sfugge, patchwork infinito di storie indistinte.

Alice Oswald ritiene che Omero, più di tutti, abbia descritto la vita con freschezza e uno sguardo sempre originale che va però penetrato, incorporato. Così, oltre agli studi classici, per sette anni si è dedicata da professionista al giardinaggio, tentando di afferrare il senso del colore (il mare color del vino, ad esempio), la differenza di percezione che si può intendere solo se si pensa con i polmoni o con il diaframma, sede per i greci della mente (da phrén). Il primo vero tentativo di restituzione omerica è del 2011, Memorial (Faber&Faber): lamento funebre, thrênos antifonale che concede un ultimo fiato ai morti dell’Iliade, grazie alle similitudini insistite che chiudono la raccolta in una sequenza epifanica di like like like connessi con il mondo animale (Oswald, per Faber&Faber, ha anche curato un «Bestiario di Ted Hughes»). In Falling awake (sempre Jonathan Cape, 2016) ha poi cantato Titono e il suo amoroso e delirante monologo con Eos dita di rosa, dea luminosa dell’alba (dall’Inno a Afrodite); o Leda (sulla scia di Ronsard, Yeats, Plath), descrivendola come un cigno in putrefazione, la fusoliera di un aereo abbattuto; o ancora la testa di Orfeo che smemora.

Il mare trasporta residui disparati

Due storie di opposta polarità, si diceva, incorniciano Nobody: l’infame delitto di Egisto e Clitennestra e la fedeltà di Penelope. Tra loro, Leucotea, Filottete, Andromaca, Ermes, Calipso, Idotea, le sirene e tanti altri forse marginali. Le loro voci e i loro rivolgimenti interiori vengono portati dalle maree e mai – secondo un procedimento caro a Oswald e adottato anche in Memorial – mai se ne raccontano le vicende, ché quelle sono erose dal sale, ma sempre e solo l’emozione, il lampo di vita dileguante che ci appartiene, e instancabilmente parla attraverso la natura e i suoi abitanti, i loro suoni. E allora l’acqua, le foche di Proteo, il vento, e allora gli uccelli, tanti, come il martin pescatore che introduce al mito di Ceice e Alcione, sposi tanto felici da paragonarsi a Era e Zeus, condannati dalla loro ira: Ceice annega durante una tempesta scatenata da Zeus e Alcione si getta in mare; ma gli dèi pietosi li trasformano in uccelli («pray for the hollowed out souls / in the skins of the living whose lifted clothes // became // birds»).
Il mare trasporta residui disparati: Omero parla di Alcione in un accenno velocissimo a Cleopatra; ne scrive invece diffusamente Ovidio nelle Metamorfosi, come narra di Procne e Filomela, le due infelici sorelle mutate in usignolo e rondine: l’usignolo, che dopo l’umana tragedia raggiunge nella condizione animale una pace dolorosa e irreale modulando il lamento dell’eterno lutto in canto melodioso e triste, è simbolo del fare poetico stesso (basti ricordare Keats).

Già Dart (Faber&Faber, 2002, vincitore del T.S. Eliot Prize) aveva dimostrato quanto l’ascolto sia componente fondamentale della poetica di Oswald. La dispersione, la disperazione e l’incantamento dell’acqua, il suo essere evaporante ma anche divina mania, fanno sì che il poeta che la canta sia destinato ad ascoltare, dalla lontananza della sua isola visitata solo dagli uccelli, frammenti eterogenei di cui può testimoniare in corpo e scrittura adattando la sintassi, spezzandola, liquefacendola in waterwork che restituisca, nell’inganno della distorsione, alcune direzioni e ossessioni della mente: «purpled mind / why go on circling». Il linguaggio è come il mare, sconfinato per i greci, unfenced per Oswald: fa inoltrare nel regno dell’inarticolato riportando indietro parte di quella meraviglia, il senso che possiamo trarre dalla poesia. Che può essere anche niente (nothing è una delle parole che Oswald usa spesso nelle sue raccolte), ma l’esperimento è pur sempre quello di attraversare la scorza effimera del reale (anche through, la preposizione, è utilizzata di frequente) e lasciar fluttuare (to float) l’alterità nelle presenze che balzano fuori e chiedono di ripetersi in sonorità e ritmo. Con un atto di fede necessario che riporta le ombre davanti agli occhi di chi le invoca, facendo del poeta una sorta di medium che si fa trapassare da quell’enárgeia, la potenza visiva che rende i lettori spettatori dal vivo. Ipnotismo, spavento, sogno: «dio, che cosa ho sognato la scorsa notte?», si chiede Oswald in A sleepwalk on the severn (Faber&Faber, 2009). La risposta, se c’è, è nell’acqua. La forma non si compie, la mente si sperde, i polmoni annaspano, gli occhi sono coralli e cominciano a vedere il sommerso, lo accarezzano o tentano di farlo.
Ma non siamo destinati, come esseri intermittenti e dalla gittata corta, e dunque nobody, nessuno: «this is the water / talking to us in the voice of amnesia / sometimes with scraping anxious steps / turning over the stones and sometimes / howling the same question over and over / and on his rock that poet shuffles about light-sleeping / every so often answering back // who is it // but for all this for maybe a thousand years / it’s been the same answer to the same question // no-one». L’acqua parla con la voce dell’amnesia e, volta a volta, dà la stessa risposta alla stessa domanda: chi è il poeta? Non uno. Ma una molteplicità di voci. Resa incarnata, lacrima salata.

Non trova mai il suo livello

Ci sono due mondi, dice Oswald alla fine della raccolta: uno è quello dell’acqua, l’altro quello dell’amore che non trova mai il suo livello. Un’interrogazione sui legami (anche), sull’amore e le sue forme e (perché no) sulla maternità, ché il mare è anche grembo liquido: e qui molte sono storie di madri, spesso violente; o di figli che cadono per provare la vita con le loro ali di cera, come Icaro. L’Odissea è un ritorno, un nóstos, che può apparire un miraggio desiderato, ma è pure la storia di un uomo che si chiede se quell’approdo sarà stabile oppure: «what next». Facendo sua l’immagine di Calipso e Ermes (dal libro V), Oswald prefigura a Penelope il nuovo «folle volo» di Odisseo, quello che lo precipiterà nell’inferno dantesco. Ma all’acqua non importa, l’acqua continua a restituire i suoi detriti, le teste riemergono, galleggiano, vengono ripescate, lo fa quella di Orfeo che canta, per continuare il ciclo. Così la poesia si fa e si disfa incurante del silenzio degli dèi, della domanda inesausta che non viene sentita o a cui non giunge responso, perché il vento lo trasporta lontano e il suono delle onde lo sommerge. E se invece giunge è lapidario. «God can you ear this». «No // not // me» (tre parole che campeggiano in una pagina tutta per loro). Un dio non può sentire; Alice Oswald sì.