Collezioniste di storie che insidiano le nostre certezze, cartografe di desolate mappe metropolitane che combattono l’oblio dell’orrore, filosofe e femministe che interpellano la natura come «luogo comune», scienziate pronte alla riscrittura dell’umanità attraverso un fossile di mandibola, divinità antiche in grado di piegare all’uso anarchico l’intelligenza


Olga Tokarczuk, il legame misterioso tra tutte le cose

di Valentina Parisi

Nel suo discorso di accettazione del Nobel ha detto di sognare «una narrazione in quarta persona che sappia includere la prospettiva di ogni personaggio, ma anche trascenderla», una letteratura «che veda sempre di più, che sia capace di ignorare il tempo». Se non può passar inosservato il significato anche politico del riconoscimento toccato a Olga Tokarczuk (quasi l’Accademia di Svezia non si fosse curata dell’eventualità che qualcuno intravedesse una logica più che altro riparatoria nella decisione di attribuire retroattivamente a una donna proprio il premio non assegnato nel 2018 per uno scandalo a sfondo sessuale), al contempo è altrettanto certo che la prolusione tenuta dalla scrittrice polacca un mese fa a Stoccolma sollevi interrogativi riguardanti lo stato attuale della creazione letteraria che dimostrano tutta l’ampiezza della sua visione, irriducibile oltre che a stereotipi di genere anche a non meno radicati pregiudizi su quel che dovrebbe scrivere un autore dell’est.
In un’epoca contrassegnata dalla proliferazione delle scritture dell’io, Tokarczuk sembra auspicare l’avvento di uno sguardo onnicomprensivo, proiettato al di fuori dell’individualità soggettiva e in grado di restituire al lettore il senso del legame misterioso che riunisce tutte le cose. Un ideale forse inattingibile che per la scrittrice è esemplificato dalla voce paradossale di quel narratore onnisciente che all’inizio della Genesi descrive il processo della Creazione, situandosi automaticamente al di sopra di essa. D’altro canto, l’impulso stesso a raccontare consiste nell’urgenza di «dare un senso ai milioni di stimoli che ci circondano», di «ordinare nel tempo un’infinita quantità di informazioni, disponendole in termini di causa ed effetto». Un bisogno istintivo che Tokarczuk assolve non solo trasgredendo i confini tra fiction e non fiction, ma anche integrando nella sua scrittura fonti eterogenee, trame improbabili, punti di vista multipli, personaggi storici bizzarri, conscia che tutto ciò non potrà che arricchire quell’approccio «panoramico» da lei auspicato.
Nei Vagabondi l’evocazione di destini individuali potentemente scossi dalla vertigine dell’eterno spostamento si accompagna a una messa in discussione radicale dell’io narrante, che non si propone più come punto di vista privilegiato sulla realtà, autorappresentandosi piuttosto come collezionista di storie in grado di insidiare le nostre certezze. È l’esito ultimo (per ora) di un’attenzione alle vite degli outsider che si era già concretizzata in Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, ma anche nel giovanile E. E., che riflette l’interesse che Tokarczuk, terapeuta di formazione junghiana, nutre per i risvolti meno ovvi della psiche. E che si fonde con una sensibilità quasi panteistica, spasmodicamente tesa ad affermare, anche in una prospettiva ecologista e post-umana, la dipendenza di noi tutti dalla Natura.
La strada da lei battuta si pone dunque in aperta rottura non solo – e parrebbe superfluo rilevarlo – con gli orizzonti asfittici dei nazionalismi/sovranisti imperanti non solo in Polonia, ma anche con quel discorso incentrato sullo scontro tragico tra l’io dello scrittore e la Storia che finora aveva monopolizzato le voci degli altri premi Nobel venuti dall’est. Dimostrando come ormai si possa tentare di dire qualcosa di più universale anche all’ombra dell’ex Muro.

Dolores Reyes e i corpi senza voce dell’Argentina

di Francesca Lazzarato

Tra premi internazionali, apprezzamento della critica e traduzioni, il 2019 è stato un anno davvero importante per le scrittrici argentine, al punto che si è parlato, forse con eccessiva precipitazione, di un nuovo fenomeno letterario ed editoriale, che accosta a nomi già noti altri nuovi e promettenti. Su tutti spicca quello di Dolores Reyes, nata nel 1978 a Buenos Aires e autrice di Cometierra, opera prima il cui considerevole successo (tre edizioni in poco tempo e vendita dei diritti in cinque Paesi) è nato da un passaparola entusiasta che ha finito per richiamare l’attenzione dei critici, dei media e degli editori stranieri: un fatto inusuale per un’esordiente del tutto sconosciuta, e per di più estranea agli ambienti della cultura porteña. Maestra elementare in un quartiere difficile, madre di sette figli (il primo lo ha avuto a diciassette anni), femminista militante sin da ragazzina, lettrice instancabile, Reyes è approdata a un laboratorio di scrittura solo dopo la fine del suo matrimonio, decisa a riscattare una vocazione germogliata ai tempi della scuola ma subito messa da parte. E trovare il tempo per scrivere, riscrivere e limare il suo quasi perfetto romanzo d’esordio è stato tutt’altro che facile: come ritagliarsi qualche ora di solitudine e concentrazione, se non alzandosi alle quattro del mattino? Il risultato è un libro implicitamente politico, che non cade mai nella tentazione della pura e semplice denuncia e racconta con raffinatissima semplicità la storia di un’adolescente capace di «vedere», quando inghiotte una manciata di terra (principio femminile in tutte le culture), l’assassinio e la sepoltura dei nuovi desaparecidos: bambini, ragazze violate e uccise, donne morte – come sua madre – per mano del compagno, vittime che la polizia tiene in scarso conto e alle quali la giustizia viene spesso negata.
In Cometierra, ambientato in una metropoli desolata e spettrale («Le geografie del libro sono le mie, quelle del Conurbano», rivela l’autrice, che è nata, vive e insegna negli sterminati suburbi di Buenos Aires), Reyes riesce a eludere le trappole del romanzo a tesi, evita l’esibizione di corpi straziati e sfiora il noir, il gotico e il fantastico, affidandosi a un linguaggio lirico e insieme popolare che restituisce con estrema efficacia una stagnante atmosfera di violenza, diseguaglianza, ingiustizia, e che ha coinvolto e travolto migliaia di lettori.
Lo sguardo è quello di chi tutto questo lo vede ogni giorno da vicino, «in un luogo dove ogni anno si uccidono delle ragazze», come sottolinea l’autrice stessa in un’intervista, aggiungendo. «Volevo costruire un racconto che parlasse di quanto ci mancano quelle ragazze e dell’orrore che ci stiamo abituando a vivere». Ma lei no, non è mai riuscita ad abituarsi, e il suo libro lo dice sin dalla dedica: «Alla memoria di Melina Romero e Araceli Ramos», giovanissime vittime abbandonate tra la spazzatura, corpi che ora sono sepolti a poche centinaia di metri dalla scuola dove Reyes lavora, presenze/assenze con cui è inevitabile fare i conti.

Donna Haraway, i mostri di un presente disturbato

di Alessandra Pigliaru

«Il linguaggio è effetto dell’articolazione, e così i corpi». Sono «animali snodati», quelli di cui parla Donna Haraway in un saggio del 1992 tradotto solo di recente per DeriveApprodi grazie alla cura di Angela Balzano (recensito su questo giornale da Benedetto Vecchi il 5 novembre). Le promesse dei mostri è passaggio interessante tra due delle opere decisive che hanno reso Haraway la femminista ecologista influente che è ancora oggi, a partire dal suo Cyborg Manifesto (edito per la prima volta nel 1985) e Simians, Cyborgs and Women (1991). Di tale articolazione tuttavia («non è questione semplice», scrive l’autrice), nelle mani di creature già spodestate dallo statuto dell’umano, dissimili dalla rotondità sferica, liscia e complementare cui si riferiva Platone, la natura è carica. Sono connessioni fitte, che aiutano a una complessa lettura del presente. Quando Haraway infatti nomina Chthulucene (Staying with the Trouble del 2016, ora tradotto per Nero e qui letto in due riprese da Lidia Curti, il 30 aprile 2017 e il 5 novembre di quest’anno), i mostri hanno già mantenuto le promesse enucleate decenni prima. Avanza un pensiero promiscuo, svetta sul più praticabile rizoma deleuziano fino a imporre i propri spiriti inaddomesticati nella natura, considerata «luogo comune».
Qui emerge la domanda cruciale che attraversa l’intera teoria filosofica di Haraway, ed è a questa altezza la ricaduta politica che parla a tutte e tutti: nella natura, chiamata non a caso «afasica» in un paradigma umano che consente solo il proprio linguaggio, l’interrogativo non è più «Chi sono?» bensì «Chi siamo noi?» Ecco l’apertura, un congedo già avvenuto in cerca di nuove alleanze, o forse sarebbe meglio dire di impreviste cospirazioni. Ma anche di un abitare il mondo ad altissima densità. Debitrice e animatrice delle grandi scritture, in particolare femministe, di fantascienza, è stato importante rileggerne le parole in questo anno appena conclusosi. Nell’espressione «pensiero tentacolare» si annida infatti una disposizione letterale: è addestramento al tocco della relazione, tentando e tastando – proprio come ci insegnano le creature tentacolari – quel che può essere percorso, praticato e che al contempo ci sopravanza e perturba. Che metafora augurabile è mai questa? E soprattutto, a chi è comprensibile? La risposta la scrive lei stessa quando riferisce sul concetto di «generare parentele», un altro modo per stare al passo di un tempo e di uno spazio talmente popolati da sembrare informi fino al soffocamento. Le parentele di cui rammenta Haraway non sono famigliari né – in senso stretto – di comunità organizzate, sono piuttosto sobillatrici di conflitti e comunioni da intraprendere, assertive di lotte con chi e con cosa si riconosca in un noi. Non parlano di futuro ma ne accusano le intemperie di cui presagio è esattamente il presente. Sono nodi opachi di cui si compone l’esistente e l’immaginabile – dalla terra diventata invivibile alla distruzione ottusa fino alle forme coercitive delle più disparate – e di cui Haraway rintraccia l’inquietudine profonda. Leggendo le sue pagine vi è allora tutto ciò che interpella lo smarrimento ma anche la resistenza allo stare insieme in un ascolto già sovvertito.

Zhang Dongju, paleontologa sulle tracce dei denisoviani

di Andrea Capocci

Quando la paleontologa cinese Zhang Dongju, finito il dottorato, iniziò a studiare quel frammento di mandibola fossile, il reperto giaceva da trent’anni sugli scaffali dell’università di Lanzhou. Per ciò che ne sapeva lei, all’università quel fossile era stato trovato da un monaco buddista sull’altopiano del Tibet nel 1980 e donato al suo maestro, il sesto Buddha vivente di Gung-Thang, uno di quelli riconosciuti dalle autorità cinesi. Intuito il valore del ritrovamento il «Buddha» lo aveva girato all’università di Lanzhou, dove nessuno lo aveva saputo classificare. Troppo diverso da tutti gli altri reperti, e così era rimasto in un armadio.
Nel 2010 nella grotta di Denisova, in Siberia, vengono trovati i resti di una misteriosa specie umana estinta. Si tratta di pochi frammenti, una falange e qualche molare, risalenti a circa ottantamila anni fa. Ma il poco Dna che rimane basta per identificare i «denisoviani» come cugini dei Neanderthal che seicentomila anni fa si separarono dal nostro ramo evolutivo. Con un po’ di fantasia, i paleogenetisti hanno persino disegnato il volto della ragazza a cui apparteneva la falange. I geni denisoviani oggi sono ancora presenti nelle popolazioni della Melanesia e tra gli aborigeni australiani.
Come ci sono finiti laggiù, se dei denisoviani abbiamo tracce solo in Siberia, a ottomila chilometri di distanza?
Zhang e il suo mentore Chen Fahu sospettano che la mandibola sullo scaffale abbia la risposta. Riescono a datarla a 160 mila anni fa. La paleontologa inizia a battere la provincia di Xiahe alla ricerca di testimonianze e racconti. La gente ricorda una grotta sacra in cui i monaci andavano a pregare: spesso ci si trovavano vecchie ossa, ma le macinavano perché la polvere era ritenuta curativa. Si chiama «grotta di Baishiya», si trova a 3200 metri di altitudine ed è ancora un luogo di pellegrinaggio. La mandibola proviene da lì.
La paleontologa contatta Jean-Jacques Hublin del Max Plank Institut di Lipsia, capace di estrarre tracce biologiche da fossili antichissimi. Sulla mandibola di Xiahe non trova Dna ma collagene, una proteina che in ogni specie ha una composizione un po’ diversa. Il collagene è lo stesso trovato in Siberia. Nella grotta di Baishyia c’erano i denisoviani.
Per Zhang Dongju è la scoperta della vita. Secondo la rivista Science si tratta della ricerca più importante del 2019, perché la mandibola spiega vari misteri. Se i denisoviani si erano arrampicati fino al Tibet, potevano essere arrivati anche più giù, nel sud-est asiatico. E proprio dall’ibridazione tra sapiens e denisoviani deve provenire quella strana mutazione genetica che permette ai tibetani di vivere in quota.
In Asia si sono incrociate le migrazioni delle specie umane da cui discendiamo? Zhang Dongju ci crede. I monaci tibetani, che non amano i cinesi, l’anno scorso le hanno dato il permesso di scavare nella grotta di Baishyia alla ricerca di altri reperti. Forse la storia dell’umanità la riscriverà lei.

Athena, la dea del mito che ha sorvegliato il 2019

di Valentina Porcheddu

A Pompei, su uno sperone lavico proteso verso il mare, sorgeva il tempio consacrato ad Athena, che – assieme al santuario di Apollo presso Porta Marina – ha accompagnato la storia dell’insediamento vesuviano, dal VI secolo a.C. fino all’eruzione del 79 d.C. Durante la campagna di scavo del 2019 svoltasi nell’area di culto dedicata ad Athena è venuta alla luce un’antefissa con testa della divinità risalente ad epoca sannitica (fine IV-inizi III secolo a.C.), deposta sopra una fossa contenente materiale votivo. L’oggetto di terracotta, perfettamente conservato, faceva parte della decorazione dell’edificio religioso, in cui gli elementi architettonici raffiguranti Athena si alternavano a quelli con testa di Apollo.
Di questa ricostruzione, così come dell’iconografia della dea con elmo frigio – ampiamente diffusa in tutto il territorio campano tanto da divenire un elemento identitario – dà conto Massimo Osanna nel volume sulle nuove scoperte pompeiane (Pompei. Il Tempo ritrovato, Rizzoli, pp. 416, euro 20). Anche la ripresa delle ricerche nel maestoso Tempio di Athena a Paestum, immagine iconica – con il cosiddetto Tempio di Nettuno – del sito magnogreco, ha portato gli archeologi diretti da Fausto Longo dell’Università di Salerno alla scoperta, sul finire dell’estate del 2019, di un volto posto di trequarti, che sembra riferibile alla dea guerriera. Poiché la superficie posteriore del reperto risulta non rifinita, gli specialisti ritengono si possa trattare del frammento di una lastra architettonica, forse una metopa.
Tale rinvenimento si inquadra in un ampio progetto di studi sul santuario di Athena finalizzato a comprendere le fasi più arcaiche dell’area sacra, solo parzialmente esplorata negli anni Venti e Trenta del XX secolo. A Castro (Castrum Minervae), dove l’équipe guidata da Francesco D’Andria, professore emerito dell’Università del Salento, indaga il tempio che ha dato il nome all’abitato antico, lo scorso settembre è invece riaffiorato un dito appartenente alla colossale statua di Minerva di cui nel 2015 era stato recuperato il busto. Gli archeologi, i quali hanno il privilegio di operare in un luogo di culto «mitico» destinato in origine all’Athena Iliaca e menzionato da Virgilio quando parla dello sbarco di Enea sulle coste italiche, confidano ora nel ritrovamento della testa della divinità.
Grande attesa c’è anche per l’uscita, nel prossimo mese di gennaio, del nuovo numero della prestigiosa rivista scientifica American Journal of Archaeology, che prevede un articolo sul tesoro del Partenone a firma di Jan Z. van Rookhuijzen. Le anticipazioni, date prima di Natale alla stampa internazionale, dallo stesso ricercatore dell’Università di Utrecht hanno già acceso gli animi. Secondo il giovane studioso olandese, infatti, il tesoro che fa riferimento all’Athena Parthenos non era conservato nel tempio simbolo dell’Acropoli di Atene e della stessa grecità, ma nell’Eretteo e più in particolare nella loggia delle Cariatidi. Nel frattempo, converrà dilettarsi con la lettura del libro curato da Giancarlo Germanà Bozza e Alberto Giudice, che proprio con La figura di Athena dall’età antica al tardoantico (Bonanno, pp. 183, euro 18), nel 2019 hanno inaugurato una nuova collana di studi iconografici e archeologici.