È in sala – cercatelo, vale la pazienza – Viaggio in Giappone, un film prezioso fra quelle visioni indipendenti che a fatica – e grazie al lavoro di alcuni distributori particolarmente sensibili – arrivano sui nostri schermi. La regista, Elise Girard è francese, questo è il suo terzo lungometraggio (Belleville Tokyo, 2011; Droles d’oiseaux, 2017) che conferma un talento per la commedia con protagoniste femminili nelle sue molte sfumature tenute insieme da un umorismo che le permette di trovare sempre il giusto equilibrio. E di miscelare con sapienza alchemica il vissuto al quale spesso si rivolge – anche stavolta, lo dice lei stessa, il punto di partenza è stata la sua scoperta del Giappone – per trasformarlo in narrazione.

PROTAGONISTA di Viaggio in Giappone è una scrittrice di successo che ha smesso di scrivere, Sidonie – il titolo originale del film che ha avuto la sua anteprima alle Giornate degli Autori è infatti Sidonie au Japon – magnificamente incarnata da Isabelle Huppert, una presenza fondamentale e non semplicemente per la grandezza d’attrice che esprime ma perché sa come trasformare in gesto sullo schermo il ritmo, il respiro che corrispondono intimamente alla scrittura del suo personaggio. Cosa ci fa Sidonie in Giappone? Non è certo una vacanza a condurla lì, anzi lei ce la mette tutta per non partire provando a perdere il volo che solo un ritardo le fa prendere. L’ha invitata il suo editore giapponese (Tsuyoshi Ihara) appassionato di letteratura francese, che ha fatto tradurre tutti i suoi libri e ora ha ristampato il suo primo romanzo all’epoca di enorme successo. Lei però è poco convinta, vive un momento di apatico dolore dopo la perdita del marito in un incidente, una vicenda che sembra replicare un altro terribile trauma, la morte di tutta la sua famiglia sempre in un incidente quando lei era giovanissima. Entrambe le volte Sidonie è sopravvissuta ma se nel caso della prima la scrittura era stata una sorta di elemento catartico col quale elaborare il lutto, stavolta non le è bastata, le pagine sono rimaste bianche e così il suo stato d’animo intrappolato in una sorta di vuoto.

Da queste premesse Girard costruisce il suo racconto che più di fatti è composto dalla materia delle immagini: spazio, tempo, geometrie dello sguardo intrecciate a citazioni cinefile (l’editore si chiama Kenzo Mizoguchi, per dirne una) lasciate scorrere con leggerezza fra i movimenti emozionali in cui ciascuno si può riconoscere.
L’uomo che Sidonie trova all’aeroporto è gentile e formale – «Lei racconta tutto di sé, noi giapponesi non parliamo dei nostri sentimenti» le dirà ascoltando i suoi incontri con la stampa. Dal primo momento come in ogni commedia romantica classica che amiamo sappiamo che tra i due accadrà qualcosa: ma come? In che modo distogliere la donna dalla sua feroce malinconia, e avvicinare quelle due isole di solitudine? Girard si muove su più piani a cominciare da quel sentimento dell’altrove che attraversa tutto il film. Nel personaggio di Huppert mette il suo punto di vista «occidentale – insieme alla sua esperienza – giocando con l’alterità, i malintesi (e non solo linguistici) e soprattutto con la scoperta di un flusso temporale che scivola tra i templi, nella natura, in un paesaggio colto per frammenti dai finestrini di auto o treni.

«QUI È TUTTO come da noi e tutto diverso» dirà Sidonie. È su questo bordo di separazione e di corrispondenza che si compie il suo passaggio personale – e quello del film – tra fantasmi – il marito di Sidonie che appare all’iprovviso citando il Mankiewicz di Il fantasma e la signora Muir (1947) – rituali, improvvise epifanie negli spazi che dividono i due protagonisti, che mutano insieme a loro, e come nell’abitacolo del taxi si fanno più vicini. Perché è un racconto di una rinascita Viaggio in Giappone nella tradizione (letteraria) del viaggio come conoscenza di sé e degli altri, e in una meraviglia che si fa cinema con piacere e con delicatezza.