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L’impossibilità di avere una buona legge contro la tortura

L’impossibilità di avere una buona legge contro la tortura

Tortura Penso da sempre che l’attività parlamentare non debba essere un esercizio di testimonianza e nemmeno una prestazione meramente simbolica. Al contrario, ritengo che possa e debba essere la conquista del […]

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 24 luglio 2015

Penso da sempre che l’attività parlamentare non debba essere un esercizio di testimonianza e nemmeno una prestazione meramente simbolica. Al contrario, ritengo che possa e debba essere la conquista del conquistabile, fino al ruvidissimo pragmatismo del «pochi maledetti e subito». In altre parole, se penso alla mia attività parlamentare di due anni e mezzo (sono tornato in Senato nel 2013), ciò che ritengo di poter ascrivere a bilancio positivo sono piccoli e circoscritti risultati: la liberazioni di alcuni detenuti italiani da orribili carceri straniere, l’accoglienza in Italia per una giovanissima siriana affetta da una grave patologia, la riduzione del tempo di trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione da 18 a 3 mesi, l’abolizione degli «ergastoli bianchi» (la detenzione a vita degli autori di reato con patologie psichiche) e – se Dio vuole – il contributo all’uscita dal carcere degli «innocenti assoluti», ovvero i bambini detenuti con le madri, e all’istituzione della Commissione di inchiesta sulla Moby Prince; e altri esiti altrettanto modesti.
Nessuna grande opera e, tantomeno, nessuna riforma radicale. Questo per argomentare quale sia il mio atteggiamento, come dire, filosofico sulla attività parlamentare possibile. Ed è stato questo atteggiamento che, per lungo tempo, ha orientato la mia posizione a proposito del disegno di legge sulla tortura. Il primo giorno della presente legislatura, presentai un disegno di legge in cui la tortura veniva considerata come un reato proprio. Ovvero un delitto fondato sull’abuso di potere e di autorità e, di conseguenza, imputabile a pubblici ufficiali e a chi esercita pubbliche funzioni; per l’intima connessione – storica e simbolica, strutturale e funzionale – che lega tortura e potere pubblico.
L’introduzione del reato di tortura è, infatti, la prima e minimale forma di tutela che lo Stato deve assicurare alla persona soggetta al suo potere, per impedire quella terribile violazione della dignità che passa, in primo luogo, attraverso l’umiliazione della persona stessa e lo strazio del suo corpo. La genesi della tortura si inquadra infatti nel rapporto tra suddito e Stato, evolvendosi poi nella relazione tra il cittadino privato della libertà e lo Stato di diritto. Dunque, connotato essenziale della tortura è l’abuso del potere, che consente a chi eserciti pubbliche funzioni di violare, nella persona affidata alla sua custodia, insieme con la dignità, la stessa umanità.
Questa impostazione – coerente con le convenzioni internazionali e con le normative di paesi simili al nostro – venne sconfitta e il Senato approvò un disegno di legge decisamente mediocre, che votai proprio in base a considerazioni quali quelle prima esposte, così sintetizzabili: meglio una legge mediocre che nessuna legge. Da allora (marzo 2014) è accaduto che quel testo sia passato alla Camera, qui abbia subito modifiche, per poi tornare al Senato e venire ulteriormente emendato dalla commissione Giustizia. Il testo si differenzia in molti rilevanti aspetti da quello votato in prima lettura dallo stesso ramo del Parlamento. In particolare:
A. Per integrare gli estremi della tortura, le violenze o minacce inferte devono essere, oltre che, più di una e gravi, anche «reiterate». Questa modifica, oltre a rendere ulteriormente difficile la prova della sussistenza del reato, ha un significato simbolico inaccettabile: la dignità può dirsi violata solo se lo sia ripetutamente; per quanto feroce, inumana e degradante, la violenza dell’uomo sull’uomo non è tortura se non è reiterata.
B. Per la realizzazione del reato, in alternativa alle violenze o minacce reiterate, non è più sufficiente il trattamento inumano o degradante, ma sarà necessario provare che l’autore abbia agito «con crudeltà». E’ facile immaginare quanto potrà essere arduo, se non impossibile, dimostrare il movente psicologico (appunto, la crudeltà) che abbia spinto l’autore a tanto.
C. Perché il delitto sussista, esso dovrebbe produrre , se non «acute sofferenze fisiche» un «verificabile trauma psichico». Quest’ultimo elemento, aggiunto adesso, rappresenterà un ostacolo spesso insormontabile per dimostrare la sussistenza del reato. I traumi psichici, come si sa, non sempre sono così facilmente, immediatamente e univocamente diagnosticabili come, che so, un trauma cranico.
D. Tra le possibili relazioni di soggezione che devono caratterizzare il rapporto tra vittima e autore scompare l’affidamento all’altrui «autorità», sostituito dall’affidamento all’altrui vigilanza o controllo. Anche questa modifica finisce con il restringere l’ambito di applicazione del reato, escludendolo per quelle situazioni (proprio le più problematiche) in cui la vittima non è stata ancora sottoposta a un provvedimento formale di custodia, come nel caso delle violenze commesse nella scuola Diaz (nel corso del G8 di Genova del 2001), o, peggio, nei suoi confronti sia stato adottato un atto illecito. La modifica rischia, insomma, di lasciare fuori proprio le situazioni nelle quali la vittima è soggetta a un potere tanto più suscettibile di abusi quanto più informale o, peggio, esercitato solo «di fatto». La figura, ampia quanto duttile, della soggezione all’altrui autorità è infatti quella che, meglio di ogni altra, avrebbe potuto coprire ipotesi di confine quali quelle di violenze commesse nei confronti di persone illegalmente arrestate o, comunque, non ancora sottoposte a provvedimenti restrittivi ma certamente soggetti all’altrui autorità.
Si capirà bene che – in presenza di simili modifiche – il testo non è più definibile «mediocre», bensì schiettamente pessimo perché di applicazione, più che difficile, impossibile. Lo stesso giudizio sembrano orientati a formulare Amnesty international e Antigone, che pure avevano mostrato in precedenza un atteggiamento estremamente pragmatico. Quindi, piuttosto che illuderci di aver ottemperato, con una norma meramente simbolica, all’unico obbligo di tutela penale imposto dalla nostra Costituzione e dalle Convenzioni internazionali, sarà meglio impegnarci per approvare una legge – quando possibile – che possa realmente prevenire e condannare la forma più grave di degenerazione dell’autorità in violenza, del potere in arbitrio, del diritto in forza.

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