È stato merito di Cecilia Calabri, nella sua bella biografia di Giaime Pintor (Utet, 2007) averne ricostruito non solo con rigore e scrupolo filologico l’itinerario politico-intellettuale, ma anche di averlo costantemente correlato alla sfera più propriamente esistenziale, nonché alla rete di giovani amici e intellettuali della «generazione senza maestri» che costituirono dopo il suo trasferimento a Roma la nuova dimensione e il cardine della sua vita.
Questi giovani avevano già preso le distanze del fascismo, ma solo una minoranza di loro, come Lucio Lombardo Radice, Aldo Natoli, Pietro Amendola, aveva bruciato le tappe verso l’azione illegale, mentre altri, come Misha Kamenetskij, Geno Pampaloni, Valentino Gerratana, Mario Spinella, avevano fatto la scelta del lavoro culturale, utilizzando gli spazi ancora aperti nelle istituzioni e nelle riviste fasciste non conformiste, ivi comprese quelle occasioni di incontro e di confronto che erano rappresentate dai Littoriali. Certo, questa azione era di per se stessa ambivalente, passava attraverso messaggi indiretti e «cifrati», ma permetteva di essere presenti, di incidere in qualche modo sulla realtà, di collegarsi e di dare un segnale diverso alle aspettative e alle inquietudini politiche e culturali dei giovani, nel momento in cui il fascismo era l’unica realtà che essi conoscevano e la rete dell’antifascismo cospirativo era divenuta in Italia estremamente labile.

Oltre i privilegi

Attraverso queste relazioni è possibile accedere anche alla sfera dei sentimenti e degli affetti, a quella particolare capacità di Giaime di cogliere i lati più belli della vita, nell’arte, nella letteratura, nella natura e nei rapporti umani e tra i generi, in una parola a quel «costante piacere di vivere» che affascinava e coinvolgeva tutti i suoi interlocutori. Ma è anche possibile cogliere il trauma segnato dalla guerra, e poi il crescente travaglio tra la condizione di privilegio che anche nella vita militare lo teneva lontano dai fronti e la sofferta presa di coscienza che essa poneva ciascuno di fronte alle proprie scelte e alle proprie responsabilità.
In Giaime il passaggio da una sorta di «antifascismo carsico» all’azione politica diretta è databile alla fase preparatoria del colpo di Stato monarchico del 25 luglio. Non è qui in discussione il suo orientamento antifascista, che era già insito nel suo carattere, nella sua precoce avversione ad ogni autorità imposta e in particolare nel suo professato odio verso la vita militare, che trovava espressione nel rifiuto della retorica autocelebrativa e bellicista del regime, delle esercitazioni premilitari imposte agli studenti universitari e nella spersonalizzazione dei rapporti umani tipica dei regimi totalitari. Ma di quale antifascismo concretamente si trattava? Il punto è che quando Giaime nella celebre lettera a Luigi pubblicata ne Il sangue d’Europa (Einaudi, 1950) scriveva che la «guerra ha dissolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciavano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento», parlava anche e soprattutto di se stesso.
Tuttavia, fino alla fine del 1942 era stata netta la sua presa di distanza non solo da quello che definiva l’antifascismo dell’astensione tipico dei vecchi liberali, ma anche dall’antifascismo cospirativo che era stato fatto proprio dai fuoriusciti e segnatamente dai comunisti e da alcuni dei suoi migliori amici e che a suo giudizio era stato segnato dall’errore di contare su una «riserva di energia politica» delle masse italiane, che in realtà non esisteva e che aveva prodotto «molte vittime» e «modesti risultati».
Nella già citata lettera al fratello, Giaime scrisse che senza la guerra «io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari», e che soltanto «la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile (…) A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento». In questo senso, il passo di Giaime riassumeva in sé l’esperienza di una intera generazione. Senonché diversi furono i percorsi individuali e diversi furono i tempi di maturazione della scelta dell’impegno politico.
In Giaime questo itinerario fu particolarmente sofferto. Dalla lettura del Doppio diario (Einaudi, 1988), risulta che, per tutta una prima fase, la nota dominante fu «una vita stranamente sospesa, che aspetta di orientarsi». In seguito, dopo il suo trasferimento a Torino alla Commissione militare di armistizio con la Francia, il tratto saliente fu il tentativo di Giaime di ricostruire la continuità spezzata dell’impegno culturale astraendosi, per quanto possibile, dalla noia e dalla desolazione di un ufficio militare molto lontano dai fronti di guerra e ritrovando l’equilibrio e la pace nella cultura e nei libri. L’incontro con la cerchia degli intellettuali torinesi che ruotavano attorno alla casa editrice Einaudi, il progetto culturale di ampio respiro europeo che vi era sotteso, così contrastante con l’asservimento al regime nazista degli intellettuali tedeschi non emigrati e con la miseria di quelli che, come in Francia, avevano scelto la collaborazione con l’occupante, rappresentarono per Giaime altrettanti stimoli per riprendere quella vita «libera e intelligente» interrotta dalla guerra ed anzi per un «salto di qualità» nel lavoro culturale rivolto verso il futuro. Ma al tempo stesso, è lecito supporre che tutto ciò abbia agito a lungo in Giaime anche come un potente fattore di rimozione che faceva crescere, come egli scriveva «il distacco fra me e il mondo che nutriva la guerra: un mondo pieno di interessi, di passioni, di gusti a me affatto estranei».
Ciò può aiutare anche a spiegare come, nel momento in cui, di fronte al prolungarsi indefinito della guerra, alle notizie dei primi amici caduti, o al dramma di quelli, come Misha Kamenetskij, che la persecuzione razziale costringeva a lasciare l’Italia, egli sentì crescere dentro di sé l’«impazienza verso la vita attuale» e l’«oscurità di quella futura», ed insieme il disagio per la sua condizione di privilegio e il desiderio di condividere la sorte dei suoi coetanei, cosicché egli richiese di essere inviato «in una qualsiasi zona di operazioni», anche come ufficiale di collegamento sul fronte orientale. A distanza di un anno, ben più forte e sofferto sarebbe stato il rimpianto di non aver partecipato alla campagna di Russia, a cui aveva ben presto rinunciato per ritrovarsi dopo pochi mesi nella solitudine e nell’inerzia burocratica della Francia di Vichy.

Valori scomparsi

Ma il punto di riferimento erano ormai le lettere ricevute dagli amici che avevano vissuto quella lacerante esperienza e la tragedia della ritirata dell’Armir dopo la rotta di Stalingrado, con tutto il corredo di antifascismo esistenziale e militante che ne sarebbe seguito e che avrebbe costituito per molti (emblematica la testimonianza di Nuto Revelli) un retroterra essenziale per la futura guerra partigiana. Non appare casuale allora che Giaime in una sofferta notazione autobiografica dell’inizio di maggio 1943 osservasse: «Del resto l’errore era di principio: per salvare troppo a lungo la pace sono venuto a trovarmi in una situazione dove tutti i valori per cui mi è cara la pace sono scomparsi, mentre mi è mancato l’episodio essenziale della guerra».
Di qui discenderà il febbrile bisogno di azione che porterà Giaime a prendere contatto con gli ambienti della cospirazione monarchica e militare e a lasciare Vichy il 25 luglio e ne guiderà le scelte nei 45 giorni e in occasione dell’8 settembre, e poi nel trasferimento a Brindisi e a Napoli. Nella lucida riflessione che affiderà a un saggio uscito postumo nel 1944, il filo conduttore sarà che il fascismo non era stato una parentesi ma una grave malattia che aveva intaccato quasi dappertutto la fibra della Nazione, e che l’Italia sarebbe uscita da questa crisi solo se avesse saputo rompere con questo passato e solo se nuove minoranze rivoluzionarie avessero dato impulso a una «rigenerazione totale» e avessero riscattato «attraverso una rivoluzione vera un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione» (ed è d’obbligo qui il richiamo alla precedente «scoperta» di Giaime della figura di Carlo Pisacane).
Era la prospettiva dell’incontro nella lotta di liberazione tra l’antifascismo del carcere e del confino, dell’illegalità e dell’emigrazione, a cui Giaime riconosceva ora la funzione storica di aver «tenuto viva per oltre vent’anni l’unica linea di pensiero indipendente in Italia» e di aver «preparato attraverso la lotta e il sacrificio i quadri di un avvenire migliore», e la nuova generazione antifascista che si era formata direttamente nel paese e a cui egli sentiva a pieno titolo di appartenere.